TRIBUNALE DI GENOVA
RG. 1338/14 – udienza 31 marzo 2015
MEMORIA EX ART. 183 COMMA 6 N. 1 C.P.C.
Nell’interesse di
Avv. Muzio Laura
-attrice-
Avv. Marco Mori
Avv. Gabriela Musu
Avv. Laura Muzio
CONTRO
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO, MINISTERO DELL’INTERNO E MINISTERO DEGLI ESTERI
-convenuti-
Avv. Carmine Guerra
* * * * *
Richiamate
e confermate tutte quante le difese già svolte in atti ed a verbale,
contestato tutto quanto ex adverso dedotto e argomentato nella comparsa
di costituzione e risposta, con la presente memoria si intende esporre
quanto segue.
1. In merito alla giurisdizione del Giudice adito.
Nel caso di specie il diritto soggettivo azionato è palese e manifesto.
L’attore
assume leso un diritto di rango costituzionale, ed in particolare un
diritto contenuto nei principi fondamentali: ovvero l’appartenenza della
sovranità.
Come
evidenziato trattasi di un diritto plurisoggettivo, ma ciò non elimina
in alcun modo l’interesse ad agire: nessun diritto è sovraordinato per
importanza a quello previsto nell’art. 1 della Costituzione.
In questo processo dibattiamo dunque del diritto più importante previsto dall’ordinamento.
Senza
dilungarsi sul tema è evidente che il diritto di voto è il mezzo (la
forma) con il quale si esercita la sovranità e che dunque, vista la
riconosciuta giurisdizione in merito alla nota vicenda che ha portato
all’incostituzionalità del cd. “porcellum” proprio sul presupposto della
lesione di un diritto costituzionale puro, non vi è ragione di negare
piena giurisdizione del G.O. anche per ogni altro diritto di rango
costituzionale.
Va
da sé che il Giudice adito, contrariamente ad ogni altra causa, non
potrà decidere la vicenda senza prima sottoporre all’attenzione della
Corte Costituzionale la legittimità delle leggi che questa difesa assume
essere causa della cancellazione del diritto di sovranità.
* * *
2. Premesse di merito all’eccezione d’incostituzionalità che si presenta in riferimento alle leggi di ratifica dei Tratatti UE.
Partiamo da alcune considerazioni di carattere generale.
Identifichiamoquali sono gli elementi essenziali di uno Stato.
Lo Stato si contraddistingue per il popolo, il territorio ed il potere d’imperio ovvero la sovranità.
Senza uno di questi elementi, sovranità compresa, non si può affatto parlare di Stato.
La Repubblica Italiana nasce nel 1946 ed il 1 gennaio 1948, dopo un intenso dibattito, viene approvata la Costituzione. Posto
che la Repubblica è qualificata come “democratica”, l’art. 1 Cost. si
preoccupa immediatamente di evidenziare l’appartenenza della sovranità
che diviene indissolubilmente collegata al popolo ed al territorio.
L’Art. 1 Cost. infatti recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sula lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Le
forme sono ovvie. La sovranità si esercita proprio attraverso quel
diritto di voto che ci è stato strappato e mai più restituito (come
evidenzia l’approvazione del cd. italicum) a seguito dell’approvazione
del “porcellum”, già dichiarato incostituzionale con la nota sentenza n.
1/2014.
Ovviamente sarebbe
comunque inutile ripristinare il diritto di voto se lo stesso non
consentisse l’esercizio pieno della sovranità poiché la sovranità,
appartenente alla popolazione che occupa il territorio italiano, è stata
previamente ceduta. Ma ci arriveremo a breve.
Interessa
approfondire in questa sede il concetto di “limiti” alla sovranità e
successivamente quello dei cd. “controlimiti” all’ingresso delle norme
internazionali nell’ordinamento precisati anche nella recentissima
sentenza n. 248/14 della Corte Costituzionale (Doc. 5).
Le norme che assumono rilievo sono l’art. 10 e l’art. 11 Cost. L’art.
10 dispone una particolare forma di limitazione della sovranità, ovvero
che l’Italia si conforma alle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute.
L’art. 11 tuttavia precisa e fissa, con estrema chiarezza a quali condizioni sia possibile “limitare” la sovranità nazionale (ovvero limitare la sovranità popolare).
Appare assolutamente intuitivo, proprio
perché senza sovranità lo Stato non esisterebbe, che i limiti della
Costituzione in materia di compressione del potere d’imperio dello Stato
sono estremamente stringenti (il legislatore si è
addirittura occupato di sanzionare penalmente la lesione del potere
d’imperio dello Stato, si parla all’uopo di delitti contro la
personalità giuridica internazionale dello Stato).
L’art. 11 Cost. recita: “L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, consente,
in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
La sovranità dunque non può essere ceduta ma solo limitata ed anche le mere limitazioni hanno, ci sarà perdonato il gioco di parole, ulteriori “limiti”.
Questo sarà il primo tema su cui dovrà essere investita la Consulta. In claris non fit interpretatio.
Fermo
il divieto assoluto di cessioni, la limitazione della sovranità può
avvenire unicamente in condizioni di reciprocità ed al fine esclusivo (ogni altra soluzione è stata espressamente bocciata in seno all’Assemblea Costituente) di promuovere un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni.
A
tali vincoli si aggiungono poi i cosiddetti “controlimiti” all’ingresso
delle norme internazionali ormai consolidati nella giurisprudenza della
Corte e ribaditi da ultimo nella già citata pronunzia n. 238/14 che
è arrivata davvero nel momento più opportuno, allorquando grazie alla
pendente causa le leggi di ratifica dei Trattati UE sono davvero vicini
ad essere poste al vaglio di legittimità della Consulta.
In sostanza l’Ill.mo Giudicante ha, in questo momento, il futuro del Paese in mano, davvero un pesante fardello.
Ai
fini dell’eccezione d’incostituzionalità che si va a sviluppare non si
procederà all’analisi approfondita delle condizioni di reciprocità delle
limitazioni di sovranità ne a quelle relative al vincolo di scopo delle
stesse.
Entrambe
non sono rispettate nell’adesione dell’Italia ai Trattati UE (un
Trattato commerciale non ha infatti nulla a che vedere con la pace ed
un’unione economica e monetaria, se priva di unità fiscale, non avviene
certo in condizioni di reciprocità). Peraltro, come
risulta chiaramente dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente
le limitazioni di sovranità erano concepite unicamente ad operazioni di
carattere militare in un contesto ove l’Italia, da poco uscita dalla
seconda guerra mondiale, rinunciava formalmente all’uso della forza
bellica e desiderava inserirsi in una nuova logica di risoluzione delle
controversie, quella dell’ONU.
In
questa sede comunque il problema più importante che si affronta è a
monte e riguarda la distinzione stessa tra limitazione e cessione di
sovranità ed il concetto dei “controlimiti” all’ingresso delle norme
internazionali nell’ordinamento.
Veniamo alla fondamentale differenza tra limitazione di sovranità e cessioni di sovranità.
Limitare
significa circoscrivere un potere entro certi limiti, ovvero omettere
di esercitare il proprio potere d’imperio (che pure deve rimanere
intatto) in una determinata materia, oppure di esercitarlo all’interno
di certi limiti generalmente riconosciuti dal diritto internazionale ai
fini di pace tra le Nazioni (dunque solo in ambito bellico). Purché ovviamente tale contenimento nell’esercizio del proprio potere
(che tuttavia, non va dimenticato secondo la nostra impostazione
democratica, appartiene al popolo, ovvero al soggetto rappresentato) sia in ogni caso rispettoso degli ulteriori cd. “controlimiti” costituzionali.
Al contrario la
cessione di sovranità invece comporta la consegna ad un terzo di un
potere d’imperio proprio di uno Stato che così per definizione perde
anche la propria indipendenza.
Analizziamo
ora il diverso concetto di controlimiti e per farlo è sufficiente
trascrivere le motivazioni della sentenza n. 238/14 della Corte Cost.
che comunque si produce integralmente.
La Corte ha elegantemente affermato:“Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i
principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti
inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso[…] delle
norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento
giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della
Costituzione”(sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex
plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n.
168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso
delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato
(sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi
rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed
irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti
anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988)”.
Ed ancora: “Anche
in una prospettiva di realizzazione dell’obiettivo del mantenimento di
buoni rapporti internazionali, ispirati ai principi di pace e giustizia,
in vista dei quali l’Italia consente a limitazioni di sovranità (art. 11 Cost.), il
limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento
internazionale e sovranazionale (artt. 10 ed 11 Cost.) è costituito,
come questa Corte ha ripetutamente affermato (con
riguardo all’art. 11 Cost.: sentenze n. 284 del 2007, n. 168 del 1991,
n. 232 del 1989, n. 170 del 1984, n. 183 del 1973; con riguardo all’art.
10, primo comma, Cost.: sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996 e n. 48
del 1979; anche sentenza n. 349 del 2007), dal
rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo,
elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale”.
La sentenza è chiara, non necessita di commenti.
La superiorità della Costituzione sui Trattati UE è acclarata con la precisazione che tale superiorità debba intendersi in riferimento ai principi fondamentali, ovvero gli articoli da 1 a 12 della Carta, dunque ivi compreso il divieto alle cessioni di sovranità, che in merito ai diritti inviolabili dell’uomo ovvero i diritti e doveri dei cittadini (artt. 13-28 la sentenza in parola infatti ha dichiarato illegittima un norma internazionale per violazione dell’art. 24 Cost.), i
rapporti etico-sociali (artt. 29-34) ed i rapporti economici, ovvero
quelle norme che rendono effettiva la fondazione della Repubblica sul
lavoro (art. 35-54) e forse ci si potrebbe spingere oltre, ma tanto
basta per affondare per sempre questa UE ripristinando la democrazia
costituzionale calpestata da oltre vent’anni
* * *
3. Ragioni giuridiche approfondite dell’illegittimità dei Trattati di Maastricht e Lisbona.
Veniamo al dunque.
In
riferimento ai Trattati in oggetto le leggi che si assumono
incostituzionali, in quanto assunte in violazione del divieto di
cessione di sovranità nazionale e dei controlimiti all’ingresso dei
Trattati UE nell’ordinamento sono le seguenti:
-Legge n. 454/1992 di ratifica del Trattato di Maastricht e Legge n. 130/2008 di ratifica del Trattato di Lisbona .
Il
Trattato di Maastricht, come quello di Lisbona ed il più recente
Trattato cd. Fiscal Compact sono per definizione cessioni di sovranità
nazionale. La stessa UE lo conferma senza mezzi termini (Doc. 6).
I
Trattati di Lisbona e Maastricht vengono esaminati congiuntamente
perché le cessioni di sovranità sono comuni ad entrambi. In riferimento
alla presente causa è cambiata unicamente la numerazione. Devono essere
portate entrambe le leggi di ratifica davanti alla Consulta poiché
altrimenti, eliminato quello di Lisbona, rimarrebbe comunque il Trattato
di Maastricht.
Maastricht
e Lisbona hanno previsto in particolare la completa cessione della
sovranità monetaria ed economica degli Stati aderenti peraltro ponendo
al centro obiettivi ben diversi da quelli propri del nostro ordinamento
e dunque confliggenti anche con i cd. “controlimiti” all’ingresso delle
norme internazionali per le ragioni di cui infra.
Tuttavia
il fatto stesso che i Trattati siano cessioni di sovranità è di per se
sufficiente a cancellarli dal nostro ordinamento senza approfondire
oltre, cosa che comunque faremo.
In primis è sufficiente l’art. 3 TFUE che certifica le materie in cui la sovranità è stata illecitamente stata ceduta: “L’unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: a) unione doganale; b)
definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del
mercato interno; c) politica monetaria per gli Stati membri di cui la
moneta è l’euro; d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) politica commerciale comune.
L’unione ha inoltre competenza esclusiva per le conclusioni di accordi internazionali (omissi…)”. Alla moneta ed all’economia si affianca anche l’illecita cessione di sovranità in materia di politica estera.
La
competenza “esclusiva” in capo all’UE rende pacifico che si sia ben
oltre la mera limitazione di sovranità e dunque la violazione degli
artt. 1, 10 ed 11 Cost. è manifesta.
In
merito specificatamente alla cessione di sovranità monetaria
l’eloquenza delle norme è tale da rendere incredibile che la prima causa
per uscire da questa autolesionistica follia sia promossa solo a
distanza di così tanti anni (per quanto ormai il pensiero è largamente
diffuso anche tra giuristi di chiara ed acclarata fama, si pensi ad
esempio al libro del Presidente della V Sez. del Consiglio di Stato –
Luciano Barra Caracciolo, intitolato Euro e(o?) democrazia
costituzionale).
Ma torniamo alle norme.
L’articolo 127 (versione consolidata TFUE – ex articolo 105 del TCE) dispone: “(omissis…) 2. I compiti fondamentali da assolvere tramite il SEBC sono i seguenti: (omissis…)−definire e attuare la politica monetaria dell’Unione, (omissis…).
La
politica monetaria è dunque ad esclusivo appannaggio del sistema
europeo delle banche centrali, appunto il SEBC. Trattasi di una
sovranità ceduta a terzi.
L’articolo 128 (versione consolidata TFUE – ex articolo 106 del TCE) chiarisce che: “La Banca centrale europea ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote in euro all’interno dell’Unione.
La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali possono
emettere banconote. Le banconote emesse dalla Banca centrale europea e
dalle banche centrali nazionali costituiscono le uniche banconote aventi
corso legale nell’Unione”.
L’Italia
non ha più una politica monetaria, è un potere d’imperio che non gli
appartiene più e che conseguentemente è stato sottratto alla sovranità
popolare e ceduto ad un ordinamento esterno.
Con
tale norma, peraltro, si viola palesemente anche uno dei cd.
“controlimiti” all’ingresso di norme internazionali nell’ordinamento.
Ai
sensi dell’art. 47 Cost. la Repubblica deve disciplinare, coordinare e
controllare il credito. Ergo alla Repubblica deve appartenere la
sovranità monetaria e, per dirlo ancora più chiaramente, la proprietà della moneta deve appartenere indefettibilmente al popolo. Dunque la violazione dell’art. 47 è altrettanto certa.
L’articolo
130 TFUE, ex articolo 108 del TCE, in insanabile contrasto con il
citato art. 47 Cost., conferisce assoluta indipendenza alla banca
centrale: “Nell’esercizio
dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti
dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale
europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi
organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle
istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi
degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli
organi e gli organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri
si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di
influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale
europea o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro
compiti”.
Si è così codificata la dottrina dell’indipendenza della Banca Centrale.
Anche
la citata indipendenza, oltre a certificare una cessione di sovranità
illecita, è priva di legittimità giuridica anche in riferimento al
controlimite di cui all’art. 47 Cost. e ciò perché, come già detto, tale norma prevede che la Repubblica debba disciplinare, coordinare e controllare il credito.
Oggi è vero il contrario.
La
sovranità è Stata ceduta e BCE, conferendogli addirittura assoluta
indipendenza dagli Stati e dunque ponendola fuori dal controllo della
sovranità popolare, fuori dalla democrazia.
BCE
oggi disciplina, coordina e controlla le politiche economiche del
Paese. Abbiamo anche avuto prova di questo, ad esempio con la nota
lettera con cui nel 2011 la banca centrale dettò le riforme da farsi in
campo economico (pare inutile produrre alcunché sul tema visto che il
fatto è noto). Ancora ad agosto 2014 Mario Draghi, governatore di BCE,
invocò cessioni di sovranità ulteriori.
E’
appena il caso di sottolineare che la Banca Centrale Europea non può
neppure prestare agli Stati la moneta che crea dal nulla e senza alcun
limite quantitativo in quanto l’art. Articolo 123 versione consolidata
TFUE, ex articolo 101 del TCE addirittura dispone: “Sono
vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di
facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da
parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate “banche centrali nazionali”), a
istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni
statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri
organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri,
così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte
della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali”.
Tanto
basta per mandare in soffitta per sempre i Trattati Europei. Non esiste
alcuna argomentazione logico-giuridica in grado di confutare questa
tesi.
Oltre
i limiti fin qui descritti si compie infatti un atto formalmente
eversivo contro la Repubblica, atti oggettivamente ostili (Si vedano in
particolare gli artt. 241, 243 e 264 c.p.).
Per
mero tuziorismo difensivo ricordiamo ancora quali sono gli obiettivi di
politica monetaria che deve perseguire BCE per evidenziare anche la
loro intrinseca incompatibilità con i controlimiti costituzionali.
Ci soccorre ancora l’articolo 127 (ex articolo 105 del TCE) che dispone: “1.
L’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali, in
appresso denominato «SEBC», è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea. Il SEBC agisce in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo una efficace allocazione delle risorse e rispettando i principi di cui all’articolo 119”.
L’obiettivo della Repubblica Italiana invece è ben diverso: il lavoro, la piena occupazione.
Il SEBC invece ha come primo obiettivo la stabilità dei prezzi e solo
al secondo posto l’economia reale e la conseguente tutela del lavoro.
Senza
entrare in dietrologie sulla ragione di tale scelta (deliberata volontà
di subordinare popoli e democrazie alla finanza) è palese che anche
tale norma sbatta frontalmente sui controlimiti costituzionali che
pongono il lavoro su un ruolo sovraordinato al mantenimento di una bassa
inflazione.
Essendo
peraltro noto in macroeconomia che un calo dell’inflazione comporta un
aumento della disoccupazione e vice versa (curva di Phillips).
Peraltro
il modello economico costituzionale riconosce il libero mercato ma non
si basa sulla libera concorrenza, ne vieta l’intervento della mano
pubblica come fanno i Trattati.
L’art. 41 Cost. afferma che l’iniziativa economica è libera ma che “non può porsi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana”.
L’art.
42 Cost. pur affermando e riconoscendo la proprietà privata prevede che
essa sia limitata allo scopo di assicurarne la funzione sociale e
renderla accessibile a tutti.
Ed ancora l’art.
43 Cost., per dare concretezza a tali principi consente l’esproprio di
determinate imprese o categorie d’imprese che si riferiscano a servizi
pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed
abbiano carattere di preminente interesse generale.
Tutto
questo i Trattati UE lo vietano espressamente, si pensi alle seguenti
norme palesemente incompatibili con la Costituzione e con gli artt. 41 e
43 precitati:
-artt. 49, 50 TFUE (ex artt. 43, 44 TCE) sulla libertà di stabilimento;
-artt. 56-62 (ex artt. 50-55 TCE) sulla libertà nei servizi;
-artt. 63-66 (ex artt. 56-59 TCE) sulla libera circolazione dei capitali.
Veniamo
poi alle cessioni di sovranità economica (il diritto di cui si
controverte è la sovranità e dunque il punto centrale del giudizio resta
questo e non il diverso modello economico dei Trattati rispetto a
quello della Costituzione), non a caso rubricate nei Trattati nel
medesimo titolo di quelle relative alla moneta.
Ancora una volta entrambi i Trattati sono speculari.
La
sovranità economica è stata ceduta in primo luogo con il protocollo n.
12 allegato al Trattato di Maastricht e poi riconfermata, immutata, con
il Trattato di Lisbona.
Il protocollo specifica il contenuto dell’art. 126 TFUE ex art. 104 TCE che testualmente dispone: “Gli
stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi. La
Commissione sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e
dell’entità del debito pubblico negli Stati membri, al fine di
individuare errori rilevanti. In particolare esamina la conformità alla disciplina di bilancio
sulla base dei due criteri seguenti: a) se il rapporto tra disavanzo
pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo superi un
valore di riferimento, a meno che: -il rapporto non sia diminuito in
modo sostanziale e continuo e abbia raggiunto un livello che si avvicina
al valore di riferimento, -oppure in alternativa, il superamento
del valore di riferimento sia solo eccezionale e temporaneo e il
rapporto resti vicino al valore di riferimento; b) se il rapporto tra
debito pubblico e prodotto interno lordo superi un valore di
riferimento, a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura
sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo
adeguato. I valori di riferimento sono specificati nel protocollo sulla
procedura per i disavanzi eccessivi allegato ai trattati. 3. Se uno
Stato membro non rispetta i requisiti previsti da uno o entrambi i
criteri menzionati, la Commissione prepara una relazione. La relazione
della Commissione tiene conto anche dell’eventuale differenza tra il
disavanzo pubblico e la spesa pubblica per gli investimenti e tiene
conto di tutti gli altri fattori significativi, compresa la posizione economica
e di bilancio a medio termine dello Stato membro. La Commissione può
inoltre preparare una relazione se ritiene che in un determinato Stato
membro, malgrado i criteri siano rispettati, sussista il rischio di un
disavanzo eccessivo. 4. Il comitato economico e finanziario formula un
parere in merito alla relazione della Commissione. 5. La Commissione, se
ritiene che in uno Stato membro esista o possa determinarsi in futuro
un disavanzo eccessivo, trasmette un parere allo Stato membro
interessato e ne informa il Consiglio. 6. Il Consiglio, su proposta della Commissione econsiderate
le osservazioni che lo Stato membro interessato ritenga di formulare,
decide, dopo una valutazione globale, se esiste un disavanzo eccessivo.
7. Se, ai sensi del paragrafo 6, decide che esiste un disavanzo
eccessivo, il Consiglio adotta senza indebito ritardo, su
raccomandazione della Commissione, le raccomandazioni allo Stato membro
in questione al fine di far cessare tale situazione entro un determinato
periodo. Fatto salvo il disposto del paragrafo 8, dette raccomandazioni non sono rese pubbliche. 8. Il Consiglio, qualora
determini che nel periodo prestabilito non sia stato dato seguito
effettivo alle sue raccomandazioni, può rendere pubbliche dette
raccomandazioni. C 83/100 Gazzetta ufficiale dell IT ’Unione europea 30.3.2010 100 Trattati consolidati 9. Qualora
uno Stato membro persista nel disattendere le raccomandazioni del
Consiglio, quest’ultimo può decidere di intimare allo Stato membro di
prendere, entro un termine stabilito, le misure volte alla riduzione del
disavanzo che il Consiglio ritiene necessaria per correggere la
situazione. In tal caso il Consiglio può chiedere allo
Stato membro in questione di presentare relazioni secondo un calendario
preciso, al fine di esaminare gli sforzi compiuti da detto Stato membro
per rimediare alla situazione. 10. I diritti di esperire le azioni di
cui agli articoli 258 e 259 non possono essere esercitati nel quadro dei
paragrafi da 1 a 9 del presente articolo. 11. Fintantoché uno Stato
membro non ottempera ad una decisione presa in conformità del paragrafo
9, il
Consiglio può decidere di applicare o, a seconda dei casi, di rafforzare
una o più delle seguenti misure: — chiedere che lo Stato membro
interessato pubblichi informazioni supplementari, che saranno
specificate dal Consiglio, primadell’emissione
di obbligazioni o altri titoli, — invitare la Banca europea per gli
investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso lo Stato
membro in questione, — richiedere che lo Stato membro in questione
costituisca un deposito infruttifero di importo adeguato presso
l’Unione, fino a quando, a parere del Consiglio, il disavanzo eccessivo
non sia stato corretto, — infliggere ammende di entità adeguata.
Il presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo delle
decisioni adottate. 12. Il Consiglio abroga alcune o tutte le decisioni o
raccomandazioni di cui ai paragrafi da 6 a 9 e 11 nella misura in cui
ritiene che il disavanzo eccessivo nello Stato membro in questione sia
stato corretto. Se precedentemente aveva reso pubbliche le sue
raccomandazioni, il Consiglio dichiara pubblicamente, non appena sia
stata abrogata la decisione di cui al paragrafo 8, che non esiste più un
disavanzo eccessivo nello Stato membro in questione. 13. Nell’adottare
le decisioni o raccomandazioni di cui ai paragrafi 8, 9, 11 e 12, il
Consiglio delibera su raccomandazione della Commissione. Nell’adottare
le misure di cui ai paragrafi da 6 a 9, 11 e 12, il Consiglio delibera senza tener conto del voto del membro del Consiglio
che rappresenta lo Stato membro in questione. Per maggioranza
qualificata degli altri membri del Consiglio s’intende quella definita
conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera a). 14. Ulteriori
disposizioni concernenti l’attuazione della procedura descritta nel
presente articolo sono precisate nel protocollo sulla procedura per i
disavanzi eccessivi allegato ai trattati. 30.3.2010 Gazzetta ufficiale
dell IT ’Unione europea C 83/101 Versione consolidata del trattato sul
funzionamento dell’Unione europea 101 Il Consiglio, deliberando
all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa
consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea,
adotta le opportune disposizioni che sostituiscono detto protocollo.
Fatte salve le altre disposizioni del presente paragrafo, il Consiglio,
su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento
europeo, precisa le modalità e le definizioni per l’applicazione delle
disposizioni di detto protocollo”.
Trattasi
di un evidente commissariamento permanente del Paese che qualora si
discosti dai parametri imposti dall’UE subisce via via sanzioni più
pesanti.
La cessione è manifesta e nemmeno serve commentare, bastando ed avanzando la piana lettura della norma.
Nel protocollo n. 12 intitolato “delle procedure di disavanzo eccessivo” ha poi codificato i parametri di deficit da rispettare.
Esso prevede (trascrizione integrale di tutti gli articoli: “Articolo
1 – I valori di riferimento di cui all’articolo 126, paragrafo 2, del
trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono: — il 3% per il rapporto fra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato, — il 60% per il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato.
Articolo 2 – Nell’articolo 126 di detto trattato e nel presente
protocollo: — per pubblico, si intende la pubblica amministrazione, vale
a dire l’amministrazione statale, regionale o locale e i fondi di
previdenza sociale, ad esclusione delle operazioni commerciali, quali
definiti nel Sistema europeo di conti economici integrati, — per
disavanzo, si intende l’indebitamento netto quale definito nel Sistema
europeo di conti economici integrati, — per investimento, si intende la
formazione lorda di capitale fisso, quale definita nel Sistema europeo
di conti economici integrati, — per debito, si intende il debito lordo
al valore nominale in essere alla fine dell’esercizio e consolidato tra e
nei settori della pubblica amministrazione quale definita nel primo
trattino. Articolo 3 Al fine di garantire l’efficacia della procedura
per i disavanzi eccessivi, i governi degli Stati membri, ai sensi della
stessa, sono responsabili dei disavanzi della pubblica amministrazione
come definita 30.3.2010 Gazzetta ufficiale dell IT ’Unione europea C
83/279 Protocolli 279 all’articolo 2, primo trattino, del presente
protocollo. Gli Stati membri assicurano che le procedure nazionali in
materia di bilancio consentano loro di rispettare gli obblighi derivanti
dai trattati in questo settore. Gli Stati membri riferiscono alla
Commissione, tempestivamente e regolarmente, in merito al loro
disavanzo, previsto ed effettivo, nonché al livello del loro debito.
Articolo 4 I dati statistici da usare per l’applicazione del presente protocollo sono forniti dalla Commissione”.
In materia la
sovranità è stata radicalmente ceduta, addirittura il paese si è
subordinato, come detto, “al vincolo esterno” che arriva al
commissariamento con imposizioni di sanzioni in caso di mancata
ottemperanza agli ordini della commissione.
Più
articolata sul punto sono invece le ragioni di contrasto in merito ai
controlimiti, fermo restando che anche qui la cessione è sufficiente per
la declaratoria di incostituzionalità della legge di ratifica.
La
comprensioni dei controlimiti costituzionali all’ingresso di norme che
impongono un tetto fisso ed immutabile al deficit richiede l’esame del
ruolo giuridico ed istituzionale del risparmio.
L’art. 47 primo comma Cost. dispone: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio, in tutte le sue forme, disciplina coordina e controlla il credito.
Favorisce
l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla
proprietà diretta coltivatrice e al diretto investimento azionario nei
grandi complessi produttivi del paese”.
Il
tema del risparmio è costantemente dimenticato nel nostro ordinamento,
benché sia un diritto costituzionalmente tutelato e dunque rappresenti
appunto un controlimite all’ingresso di norme internazionali. La
definizione di risparmio è assai semplice: trattasi di quella parte del
reddito non utilizzata e quindi accantonata da ogni cittadino.
Come
sempre quando si parla di Costituzione è utile leggere i verbali
dell’assemblea costituente. Da essi si evince con forza quanto fosse
chiaro e limpido il concetto della tutela
del risparmio nelle intenzioni dei padri costituenti e ciò come
conseguenza diretta ed immediata della stessa fondazione della
Repubblica sul lavoro (art. 1, 4, 35 Cost.) e del diritto del lavoratore
ad una retribuzione adeguata a garantirgli un’esistenza libera e
dignitosa (art. 36 Cost.), nonché del diritto degli invalidi o degli inabili ad essere assistiti (art. 38 Cost.).
Il risparmio è necessario per tale finalità ovviamente.
L’onorevole
Tupini, nel dibattito della sottocommissione costituente che
presiedeva, propose l’inserimento nella Carta della seguente dicitura: “La legge regola e tutela il risparmio”. Merlin propose invece la formula:“La legge tutela e difende il risparmio”. Si inizio una delibazione sul tema.
Tuttavia,
tanto era chiaro il concetto della difesa del risparmio nelle menti dei
costituenti, che la replica a queste formulazioni di Mastrojanni fu che
le formule proposte erano addirittura pleonastiche in quanto: “Nessun cittadino può dubitare che il suo risparmio possa essere aggredito”.
Compito
del Parlamento e del Governo è dunque certamente quello di tutelare il
risparmio nel senso più totale e pieno del termine. Ma cosa implica
tutto ciò e come può essere messo in relazione con i criteri di
stabilità e convergenza sopra specificati?
Per
rispondere a tale quesito occorre in primo luogo avere ben chiaro come
si verifica il fenomeno dell’accantonamento del risparmio entrando
necessariamente in logica di politica economica e monetaria.
E
qui, benché non sia un elemento poi decisivo per la vicenda poiché i
Trattati sono già incostituzionali per quanto sin d’ora detto, è
necessario prestare particolare attenzione a quanto si scrive posto che
si affronta un concetto fortemente controintuitivo.
Ovviamente il risparmio privato è per definizione il risultato di una politica di deficit dello Stato. In sostanza se
lo Stato recupera a tassazione ogni singolo euro immesso nel sistema
chiaramente lo stesso concetto di risparmio diventa una mera utopia non
essendo più realizzabile matematicamente.
Uno Stato che fin dalla sua nascita adotta il principio del pareggio in bilancio (o impone un tetto al deficit che non consente di spendere più di quanto tassa) è uno Stato che non tutela il risparmio diffuso in tutte le sue forme ma lo rende impossibile ex lege. Un lavoratore che non può risparmiare non potrà avere un’esistenza libera e dignitosa.
Il
concetto sembra solo in apparenza controintuitivo, anche per i
giuristi. Ciò accade in quanto anche noi professionisti siamo soggetti a
forme di condizionamento mediatico e culturale che trovano terreno
fertile laddove le nostre competenze non sono sufficienti ad avere un
pensiero del tutto autonomo e fondato su solide basi in fatto ed in
diritto: non siamo dunque
in grado di comprendere (perché non è tema che affrontiamo usualmente
sul campo) il significato giuridico-costituzionale del concetto di
deficit pubblico, concetto che necessariamente dovrà essere trattato dai
giudici della Corte Costituzionale proprio indicando espressamente il
tema nella redigenda ordinanza di rimissione.
Anche se basta la prova, ampiamente raggiunta dell’avvenuta cessione di sovranità, per dichiarare i Trattati UE illegittimi.
Deve
essere chiarito fino a rendere il concetto pacifico per tutti,
esattamente come è oggi pacifico affermare che la Terra non è piatta,
che ad uno Stato non possono applicarsi logiche economiche di stampo
aziendale e dunque logiche proprie della microeconomia.
Un’azienda
crea risparmio facendo attivo, lo Stato invece può crearlo per i propri
consociati unicamente attraverso il proprio passivo, ovvero immettendo
più moneta di quanta ne drena.
Lo
Stato secondo il modello costituzionale dunque è la figura che
regolamenta le principali variabili macroeconomiche del paese lo Stato
appunto deve: “disciplinare, coordinare e controllare il credito”.
Lo Stato (ergo il popolo) in definitiva deve avere la piena sovranità d’immettere moneta nel circuito economico.
La
moneta può essere immessa in circolo unicamente attraverso la stampa di
diretta, attraverso la spesa pubblica in deficit (meccanismo oggi
adottato), attraverso le esportazioni oppure per mezzo dei prestiti
delle banche commerciali. Oggi
sia la stampa diretta di moneta che la spesa pubblica a deficit sono
precluse dalle cessioni di sovranità compiute con la ratifica dei
Trattati UE e dunque ci rimane solo la via dell’esportazione.
La base monetaria può essere aumentata unicamente drenando liquidità da altre nazioni
(esattamente in questo contesto si spiega l’attivo della bilancia dei
pagamenti della Germania, forte grazie alle esportazioni) oppure chiedendo prestiti che ovviamente comportano il pagamento di interessi.
Dunque la
tutela del risparmio, che presuppone la sua creazione, si pone in
evidente contrapposizione ai vincoli d’indebitamento dei Trattati UE ed
al pareggio in bilancio in
Costituzione che costituisce la certificazione definitiva del fatto che
la Repubblica non si occuperà più del risparmio e dunque del lavoro.
Nel
lungo periodo il risparmio si può creare unicamente con politiche di
deficit (intendendo con questo termine anche la stampa diretta di moneta
e quindi un deficit che in realtà non costituisce debito reale verso
nessun soggetto ma solo il dato quantitativo della moneta realmente
emessa da uno Stato sovrano).
Dunque
la violazione dei controlimiti afferisce sia all’art. 47 Cost. ma anche
agli artt. 1, 2, 3, 4 e 35, 36, 38, 138 e 139 Cost.
Ma
abbiamo parlato di pareggio in bilancio e dunque veniamo alle ultime
due Leggi di cui si afferma, senza tema di smentita la manifesta
incostituzionalità in quanto compromettono la sovranità popolare.
* * *
4.
Ragioni giuridiche dell’incostituzionalità del Trattato cd. Fiscal
Compact e della conseguente riforma costituzionale compiuta con Legge n.
1/2012 che ha introdotto il pareggio in bilancio anche in Costituzione.
Parimenti
incostituzionali in quanto costituiscono illegittime cessioni di
sovranità, altresì in contrasto contro i controlimiti all’ingresso delle
norme internazionali nell’ordinamento sono anche le seguenti leggi:
Tale
Trattato risulta palesemente incostituzionale in quanto non solo
riconferma le cessioni di sovranità già compiute con i Trattati di
Maastricht prima e Lisbona poi ma addirittura le inasprisce.
I limiti al deficit diventano più stringenti ed i poteri sanzionatori delle autorità europee vengono incrementati.
L’art. 3 del Trattato è assolutamente eloquente: “1. Le
parti contraenti applicano le regole enunciate nel presente paragrafo
in aggiunta e fatti salvi i loro obblighi ai sensi del diritto
dell’Unione europea:
a) la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo;
b)
la regola di cui alla lettera a) si considera rispettata se il saldo
strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all’obiettivo di
medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di
stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5%
del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato. Le parti contraenti
assicurano la rapida convergenza verso il loro rispettivo obiettivo di
medio termine. Il quadro temporale per tale convergenza sarà proposto
dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici del paese
sul piano della sostenibilità. I progressi verso l’obiettivo di medio
termine e il rispetto di tale obiettivo sono valutati globalmente,
facendo riferimento al saldo strutturale e analizzando la spesa al netto
delle misure discrezionali in materia di entrate, in linea con il patto
di stabilità e crescita rivisto;
c)
le parti contraenti possono deviare temporaneamente dal loro rispettivo
obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale
obiettivo solo in circostanze eccezionali, come definito al paragrafo 3,
lettera b);
d)
quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo
ai prezzi di mercato è significativamente inferiore al 60% e i rischi
sul piano della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche
sono bassi, il limite inferiore per l’obiettivo di medio termine di cui
alla lettera b) può arrivare fino a un disavanzo strutturale massimo
dell’1,0% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato;
e)
qualora si constatino deviazioni significative dall’obiettivo di medio
termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo, è attivato
automaticamente un meccanismo di correzione. Tale
meccanismo include l’obbligo della parte contraente interessata di
attuare misure per correggere le deviazioni in un periodo di tempo
definito.
2.
Le regole enunciate al paragrafo 1 producono effetti nel diritto
nazionale delle parti contraenti al più tardi un anno dopo l’entrata in
vigore del presente trattato tramite disposizioni vincolanti e di natura
permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è
in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale
di bilancio. Le parti contraenti istituiscono a livello nazionale il
meccanismo di correzione di cui al paragrafo 1, lettera e), sulla base
di principi comuni proposti dalla Commissione europea, riguardanti in
particolare la natura, la portata e il quadro temporale dell’azione
correttiva da intraprendere, anche in presenza di circostanze
eccezionali, e il ruolo e l’indipendenza delle istituzioni responsabili
sul piano nazionale per il controllo dell’osservanza delle regole
enunciate al paragrafo 1. Tale meccanismo di correzione deve rispettare
appieno le prerogative dei parlamenti nazionali.
3.
Ai fini del presente articolo si applicano le definizioni di cui
all’articolo 2 del protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi
eccessivi, allegato ai trattati dell’Unione europea.
Ai fini del presente articolo si applicano altresì le definizioni seguenti:
a)
per «saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione» si intende
il saldo annuo corretto per il ciclo al netto di misure una tantum e
temporanee;
b)
per «circostanze eccezionali» si intendono eventi inconsueti non
soggetti al controllo della parte contraente interessata che abbiano
rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica
amministrazione oppure periodi di grave recessione economica ai sensi
del patto di stabilità e crescita rivisto, purché la deviazione
temporanea della parte contraente interessata non comprometta la
sostenibilità del bilancio a medio termine”.
Oltre le manifeste cessioni, comunque illegittime, valgono esattamente
le medesime considerazioni circa l’incompatibilità tra pareggio in
bilancio e tutela del risparmio in una Repubblica fondata sul lavoro.
La procedura sanzionatoria viene poi inasprita l’art. 4 infatti prevede: “Quando
il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una
parte contraente supera il valore di riferimento del 60% di cui
all’articolo 1 del protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi
eccessivi, allegato ai trattati dell’Unione europea, tale parte
contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno
come parametro di riferimento secondo il disposto dell’articolo 2 del
regolamento (CE) n. 1467/97 del Consiglio, del 7 luglio 1997,
per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della
procedura per i disavanzi eccessivi, come modificato dal regolamento
(UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell’8 novembre 2011. L’esistenza di un
disavanzo eccessivo dovuto all’inosservanza del criterio del debito
sarà decisa in conformità della procedura di cui all’articolo 126 del
trattato sul funzionamento dell’Unione europea”.
L’art. 5 Cost. conferma poi la fine della sovranità italiana in materia economica: “1. La
parte contraente che sia soggetta a procedura per i disavanzi eccessivi
ai sensi dei trattati su cui si fonda l’Unione europea predispone un
programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una descrizione
dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per una
correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo(si noti che con questo Trattato tutti il disavanzo è eccessivo perché occorre la parità o l’attivo di bilancio n.d.s.). II contenuto e il formato di tali programmi sono definiti nel diritto dell’Unione europea”.
Ed ancora la norma chiaramente ci impone il “vincolo esterno” con tale sconcertante precisazione: “La
loro presentazione al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione
europea per approvazione e il loro monitoraggio avranno luogo nel
contesto delle procedure di sorveglianza attualmente previste dal patto
di stabilità e crescita.
2.
Spetterà al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea
monitorare l’attuazione del programma di partenariato economico e di
bilancio e dei piani di bilancio annuali ad esso conformi”.
Con buona pace della sovranità che apparteneva al popolo.
L’art. 6 poi addirittura impone la comunicazione “ex ante al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea i rispettivi piani di emissione del debito pubblico”.
Il
Governo Monti ha successivamente varato una riforma costituzionale per
rendere la nostra Carta Costituzionale asseritamente compatibile con
tali nuove norme.
La legge costituzionale n. 1/2012 è l’ultima norma di cui si eccepisce l’incostituzionalità.
Il
pareggio in bilancio infatti, inserito con la modifica dell’art. 81
Cost. è in totale contrasto con i principi fondamentali della Carta ed i
diritti inalienabili dell’uomo.
Le
leggi costituzionali non sfuggono infatti al vaglio previsto anche con
la sentenza n. 238/2014, ed una legge che modifica la forma Repubblicana
dello Stato è illegittima.
I controlimiti infatti come ribadito dalla Consulta: “rappresentano,
in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili
dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla
revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988)”.
Il
pareggio in bilancio non poteva essere inserito in Costituzione poiché
tale aspetto della carta non è passibile di revisione in quanto
contrasta con i principi fondamentali dell’ordinamento impedendo allo
Stato (al popolo) di esercitare la propria sovranità economica e
monetaria e di attuare politiche di deficit (da finanziare come meglio e
sovranamente si riterrà) atte a perseguire la piena occupazione.
Inutile
ripetere pedissequamente le motivazioni già addotte che semplicemente
si richiamano in merito al ruolo giuridico del deficit.
Vale
però la pena trascrivere un passo, non già dello scrivente, ma di
Luciano Barra Caracciolo, Pres. della V sez. del Consiglio di Stato,
risalente all’anno 2013:
“Sviluppando
il tema ora intrapreso, è accettabile, ad esempio, che sia
automaticamente insindacabile ogni legge che, nel fine politicamente
dichiarato, persegua il fine della riduzione dell’indebitamento annuale
dello Stato, alla luce dell’enunciato del nuovo art.81 Cost., (peraltro
valevole a partire dal 1 gennaio 2014), per cui, “Lo Stato assicura
l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo
conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”?
La risposta pone capo a varie soluzioni.
Anzitutto.
La proposizione costituzionale assunta nella sua finalità programmatica
specifica, può implicare il sacrifico “massivo” di molte altre norme
costituzionali di “principio”, -cioè quelle che lo stesso art.139 Cost.,
non consente di abrogare-modificare- perché caratterizzanti la “forma
repubblicana”, intesa come Repubblica democratica fondata sul lavoro,
(dato che tale è l’enunciato dell’art.1 Cost. ed il più chiaro
riferimento intratestuale e sistematico all’ubi consistam di tale
“forma”).
Se
risultasse, in tale prospettiva, che la riduzione costituzionale e, in
via di attuazione periodica e costante, “legislativa”
dell’”indebitamento” (che il susseguente comma dell’art.81 vieta
direttamente, tranne “autorizzazione” delle Camere, adottata a
maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di
“eventi eccezionali”, connessi a “effetti del ciclo economico”),
diminuisse in modo prolungato e “strutturale” l’occupazione (art. 1 e 4
Cost, in sistema con gli artt. 35, 36 e 37 Cost.) ad esempio
registrandosi un massiccio incremento della disoccupazione, con forte
decremento, comprovato del monte-retribuzioni ad esse precedentemente
attribuite, lo stesso “nuovo” art.81 sarebbe in contrasto con norme
costituzionali prevalenti e, a rigore, si aprirebbe la via al sindacato
“interno” alla Costituzione stessa.
La
sindacabilità, anche di norme di revisione, ove violative dei precetti
“primigeni” di livello costituzionale, e quand’anche attuative di
obblighi pattizi assunti in sede “europea” è da ritenere pacifica.
Ed
infatti, se il nostro diritto interno é cedevole di fronte al diritto
comunitario, quest’ultimo non può derogare o superare i “principi
supremi” della nostra Costituzione.
Una regola questa ribadita dalla Corte costituzionale (sent. 284 del 13 luglio 2007).
Di essasegnaliamo questo passaggio:
“Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno ordinamento
comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte,
consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984,
le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al
giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto
interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie
– in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve
essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona(da ultimo, ordinanza n. 454 del 2006).
Ma,
quello della “incidenza manifesta” sul livello di occupazione, è solo
uno degli esempi tra i molteplici che si possono addurre: si pensi a una
prolungata disciplina finanziaria che, anno per anno, disponga
sistematicamente il taglio degli investimenti pubblici, com’è in effetti
avvenuto. Ciò fa venir meno un determinante sostegno alla
domanda aggregata (il PIL), e, proprio e specialmente in situazione di
stagnazione o flessione del PIL, determina la conseguenza di limitare
concretamente le indispensabili politiche pubbliche volte a indirizzare
l’iniziativa economica verso obiettivi di “sicurezza, libertà e dignità
umana” (art.41 Cost., secondo comma), programmando e controllando
“effettivamente” l’attività economica, affinché si rivolga (art.41,
terzo comma) verso “fini sociali” – tra cui certamente spicca, in virtù
degli artt. 1 e 4 Cost.- il perseguimento della “piena occupazione” (e
non certo politiche fiscali che amplifichino la disoccupazione).
In altri termini, lo
stimolo fiscale all’economia ha una oggettiva funzione
anticongiunturale e di concomitante sostegno all’occupazione, e, tale
stimolo, per essere conforme a numerose norme costituzionali di tutela
del lavoro come fondamento e legittimazione del legame comunitario
generale, deve poter essere svolto in misura “effettiva”, cioè adeguata
alla dimensione macroeconomica del Paese e non essere ridotto in termini
puramente formali e, perciò, tra l’altro, “inattendibili”, secondo
l’obiettivo stato della scienza economica, rispetto all’obiettivo
(stimolo e sostegno), agevolmente ricavabile in via sistematica dalla
Costituzione.
Si
consideri, poi, che, come si è illustrato alla nota 3), la stessa
sindacabilità delle norme di revisione costituzionale, secondo la più
attenta e “autentica” (in senso di attribuibile direttamente
all’intendimento del Costituente) dottrina, è fondata sulla pacifica
superiorità della Costituzione “primigenia” rispetto alle fonti, pur
costituzionali, di sua modifica successiva, laddove ne risulti
“alterata” l’effettività del suoi principi fondamentali.
Un
tale effetto di “svuotamento” e quindi “violazione” dei principi
fondamentali, potrebbe essere avallato dalla Corte, facendo perno
sull’assunto del carattere tecnico, automaticamente insindacabile, del
concetto di “ divieto di indebitamento”, enfatizzando la copertura
apprestata dal mero enunciato del perseguimento di tale fine, quando,
invece, “si provasse” – come appunto pare accettare la Corte con la
sentenza n.93/2011- che lo stesso è “sbagliato”, cioè inattendibile
rispetto alle consolidate risultanze della scienza economica?
Risulta
arduo affermare che la Costituzione, depotenziata nei suoi contenuti
fondamentali, debba arrestare la sua garanzia dei diritti fondamentali,
solo perché entri in gioco una qualunque disposizione che sancisca un
compito governativo-legislativo nel campo della gestione del bilancio
pubblico, se tale “compito”, – svolto in base ad “una” dottrina
economica, divergente da altre “prevalenti”-, concretamente produca
“effetti” di “svuotamento” risultanti da dati e nessi causali dotati di
obiettiva evidenza.
Ancor
prima, una o più leggi, che, nella vigenza del precedente testo
dell’art.81 Cost. (cioè in assenza dell’obbligo di “pareggio”),
perseguissero, o provocassero (ma vedremo che la diligente comprensione
dei principi economici attenua tale distinzione) questi stessi effetti,
sarebbe costituzionalmente illegittima, sebbene ancorata a enunciati,
testuali o extratestuali, rapportati allo stesso fine di
“consolidamento” del bilancio”.
* * *
Ad
avviso di questa difesa il Giudicante non potrà tralasciare nulla di
quanto ivi esposto, che andrà ad avviso di questa difesa trascritto
integralmente senza omissioni alcuna, nell’ordinanza di rimissione da
presentare alla Corte Costituzionale. Partendo dalla definizione degli
elementi essenziali di Stato (popolo, territorio e sovranità) non
sussiste alcun dubbio che la cessione a terzi della sovranità del popolo
italiano sul proprio territorio sia un palese illecito costituzionale
(e penale) non trovando alcuna compatibilità con gli artt. 1, 10, 11
Cost. che prevedono la diversa fattispecie della limitazione di
sovranità in condizione di reciprocità finalizzata esclusivamente
all’adesione ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia e
dunque unicamente ad un limitazione della sovranità “bellica” compiuta
per consentire l’adesione all’ONU. Le norme dei Trattati internazionali
che certificano tali cessioni di sovranità sono puntualmente indicate in
atti ed andranno evidenziate alla Consulta.
Tali
norme, come specificato in narrativa, violano anche ulteriori
“controlimiti” costituzionali con riferimento alla forma stessa dello
Stato “Repubblica fondata sul lavoro” e dunque agli artt. 1, 4, 35, 36,
38, 41, 42, 43, 47, 138 e 139 Cost., anch’essi evidenziati in narrativa
ed argomentati compiutamente.
Illegittima
anche la legge costituzionale n. 1/2012 in quanto lesiva delle medesime
norme privando il popolo della sovranità economica. Le norme della
Costituzione violate sono ancora le medesime ovvero 1, 4, 10, 11, 35,
36, 38, 41, 42, 43, 47, 138 e 139 Cost.
Si produce:
Doc. 6) Missiva UE.
Con
riserva di depositare nanti alla Corte Costituzionale memoria
integrativa contenente anche una compiuta relazione economica delle
conseguenze del pareggio in bilancio.
Rapallo, 22 maggio 2015
Avv. Marco Mori Avv. Laura Muzio Avv. Gabriela Musu
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