Anna Lombroso per il Semplicissimus
Lavoratori
trattati come marionette i cui fili sono tirati da gerarchie di
burattinai, umiliati come irresponsabili parassiti, divisi in una «minoranza aggressiva che strilla» a fronte di una «maggioranza abulica», tacciati da “squadristi”, probabilmente manovrati da “aree Cobas e da studenti legati ai collettivi universitari e ai centri sociali di Bologna”.
La “promozione” della funzione del preside da dirigente a caporale,
esaltandone il carattere arbitrario e discrezionale, tanto che l’unico
limite previsto, quello di non favorire i famigliari, fa sospettare la
tacita autorizzazione allo scambio di favori tra omologhi, vertici di
una scala di stipendio, ruolo e potere assoluto rispetto a docenti
ridotti a dipendenti. Distorsioni perfino semantiche, a cominciare
dall’uso del termine “crediti”, a sancire la realizzazione di un
immaginario tutto imperniato su valori “aziendali”, di marketing e di un
merito che antepone conformismo e ubbidienza a talento e vocazioni,
testato da un organismo di valutazione scelto da una dirigenza
politica con esiti comici. La riconferma dell’indole a consolidare e
perpetuare le disuguaglianze, impoverendo il sistema pubblico per
proclamare la desiderabile superiorità di quello privato. La centralità
data alle famiglie, che quelle disuguaglianze potranno riaffermare, di
modo che quelle più abbienti e con maggiori risorse di censo e culturali
possano essere più proprietarie di quelle meno facoltose per le
quali dovrà intervenire uno Stato sempre più indebitato e renitente: la
cosiddetta riforma della scuola è davvero il paradigma del Paese e di
come si vuole che sia da oggi in poi.
Per
quello è ancora più sleale, ancora più codarda l’astensione di quelli
che una volta, quando l’Unità era il quotidiano fondato da Antonio
Gramsci, ma anche dopo, si chiamavano intellettuali, organici o no,
magari troppo dediti alla sottoscrizione di pomposi appelli e alla firma
di lussureggianti lettere aperte, dei quali peraltro oggi ci sarebbe
comunque un gran bisogno. Latitanti per assoggettamento, silenti in
quanto appagati dall’appartenenza a un ceto castale con le sue rendite
di posizione, i suoi privilegi, le sue sicurezze editoriali, televisive,
ma anche perché per lo più, salvo qualche illuminata eccezione, si
tratta di apparatchik del mondo accademico che hanno digerito e
sintetizzato a loro beneficio quella riforma dell’università, prodromo
della Buona Scuola, di Berlinguer che ha dato pari dignità a istituzioni
pubbliche e private, omologato i corsi di laurea e la durata,
cancellando le distinzioni tra ricerca e insegnamento, creando
gerarchie su base geografica – sempre la stessa, esaltando il potere di
rettori e di consigli permeabili a ingerenze esterne, anche quelle
sempre le stesse.
Eppure
la logica che muove questa riforma, approvata benché sia una ignava e
regressiva scatola vuota, è talmente ed esemplarmente simbolica del
golpe inteso a cancellare quel che resta della democrazia in ogni
contesto ed ambito della società, che in piazza non dovrebbero scendere
solo gli insegnanti, gli alunni, le famiglie, ma dovremmo andarci tutti,
compresa la signora Agnese Landini in Renzi, se fosse preoccupata del
presente e del futuro suo e dei suoi figli, messo in discussione dal
governo del partito unico che ha firmato l’esecuzione dell'istruzione
pubblica, la condanna della libertà di insegnamento e di apprendimento,
la morte quindi della scuola come la disegnarono i costituenti, un
luogo di emancipazione, di riscatto, di uguaglianza.
E
infatti le “consultazioni” via web somigliano proprio a una operazione
di marketing, intesa a porre un sigillo su dialogo, concertazione,
negoziazione ed ascolto, come succederà con la legge elettorale che
suggella il rito notarile di conferma, effettuato nella cabina
elettorale.
La
fretta pre elettorale imposta al Parlamento: occorre condurre in porto
la navicella ubriaca della riforma pena la mancata assunzione dei
precari, ripropone la logica del ricatto come abituale sistema di
sopraffazione e lo svuotamento delle facoltà della rappresentanza, lenta
e inadempiente tanto da imporre l’esercizio di poteri sostitutivi da
parte del governo. E intende mettere fine al gioco della parti della
deliberazione e della decisione, scavalcando le regole democratiche che
da oltre vent’anni vengono oltraggiate, insultate, aggirate, additate
come una perdita di tempo in chiacchiere, che il troppo deliberare e il
poco decidere ostacolano il “fare”.
L’enfasi
messa sulla valutazione evoca il sopravvento che hanno preso teorie,
procedure e strumenti propri della “cultura” aziendale e finanziaria,
secondo la quale il valore di persone e prestazioni dipende dalla
capacità di mettersi al servizio di un’organizzazione, garantendo
deferenza e dipendenza, rispettando obiettivi legati unicamente al
profitto.
Il
sostegno esplicito alla privatizzazione della scuola pubblica e alla
valorizzazione di quella che privata lo è già è il regno in terra della
teocrazia del mercato, che deve imporsi ovunque, per forza o per
proselitismo, espropriando beni comuni, premiando la rendita e la
speculazione, abbattendo l’edificio di regole e controlli, favorendo
leaderismo e egemonia proprietaria.
La
forza muscolare e autoritaria del “nuovo” preside esemplifica su scala
il sogno del bullo narcisista di Palazzo Chigi, quello di un uomo al
comando, di volta in volta podestà, sceriffo, tutore, prefetto,
padroncino, caporale, dirigista e decisionista per il nostro bene, che
pontifica da balconi, predellini, davanti a lavagne, mentre dovrebbe
stare dietro, slide, schermi luminosi, sui quali segnare buoni e
cattivi e proiettare gli slogan del suo regime cafone e maleducato,
strapaesano e ignorante, ma ciononostante violento, sopraffattore,
aggressivo, pronto a spaccare teste di chi obietta, a denunciare chi
manifesta, a zittire chi protesta, a escludere chi osa interferire con
la sua sceneggiatura, a punire che commette il reato di lesa maestà.
Bocciarlo non è solo un piacere. E’ un dovere. Per tutti.
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