
(FABIO TONACCI - La Repubblica) - ROMA – Paolo Emilio Signorini, l’uomo che oggi occupa le due poltrone più importanti del dicastero delle Infrastrutture, nel luglio del 2011 si faceva pagare le vacanze al mare in Toscana dal patron del Mose. È nelle carte dell’inchiesta della procura di Venezia che si trova un pezzo pesante del passato di Signorini, nominato capo dipartimento nel maggio 2013 dal ministro Lupi e scelto poi nel gennaio di quest’anno quale successore di Ercole Incalza alla Struttura di missione per le Grandi Opere. In pratica, è la persona cui sono affidati il presente e il futuro di tutti i grandi lavori pubblici d’Italia. Due anni fa, parlava così al telefono con Giovanni Mazzacurati.
«Ingegnere sono Signorini… volevo soltanto dire che siamo arrivati, e tutto benissimo, la volevo ringraziare». «Ha trovato tutto, sì?», gli chiede l’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova. «Tutto perfetto, abbiam già fatto mezza giornata di mare», risponde lui, informandosi poi sulla qualità dei ristoranti di Castagneto Carducci. Quel soggiorno — scrive il gip veneziano Alberto Scaramuzza — era un «presente», che Mazzacurati aveva concesso, mettendolo sul conto del Cvn, a Signorini e a tutta la sua famiglia. «È sempre stato un amico », spiega l’87enne (arrestato il 12 luglio 2013) alla sua segreteria che chiedeva lumi sul perché di quella prenotazione di due stanze d’albergo. Non era un “benefit” disinteressato. Signorini nel 2012 era capo Dipartimento al Cipe, la “borsa” interministeriale i cui cordoni si dovevano allargare per sbloccare i milioni di euro di fondi necessari per il Mose. Non solo. Mazzacurati insisteva con Incalza per nominarlo nel 2013 al Magistrato delle Acque, l’ente che ha il compito di vigilare sul Mose e sulle autorizzazioni dell’opera. «Lui andrebbe benissimo », suggeriva al telefono. Quest’ultima mossa, nonostante le pressioni e le amicizie a Roma, non gli riuscì.
Signorini non è stato indagato a Venezia e non risulta indagato nemmeno a Firenze. Eppure la sua carriera è annodata a doppio filo a quella di Incalza, arrestato lunedì scorso. Classe 1963, Signorini è arrivato al Mit nel 2006 come coordinatore nella Struttura di Missione. Si occupava delle istruttorie dei progetti delle Grandi Opere. Poi nel 2008 viene spostato al Cipe, che quei progetti doveva approvare e finanziare. Qui diventa coordinatore del Nars, l’organismo tecnico di consulenza nei settori aeroportuale, marittimo, postale, ferroviario dove si trova di fronte ancora Incalza, che il ministero delle Infrastrutture inviava quale proprio rappresentante, nonostante il suo ruolo di direttore della Struttura suggerisse un potenziale conflitto di interessi.
È Signorini — tra l’altro — che firma l’avviso pubblico di selezione del 28 ottobre 2013 per quel posto, remunerato con uno stipendio 136.000 euro all’anno. Richiedeva esperienze lavorative decennali in posizioni simili, «delle quali — si legge in un interrogazione parlamentare — solo il candidato Incalza risultava essere in possesso». E così è stato nominato e rimasto in carica fino al 31 gennaio scorso. Dopo aver faticato per tenere quella Struttura nell’orbita del Mit («i soldi li abbiamo difesi.. — si sente dire Incalza in un’intercettazione — ho dovuto parlare con Azzolino, Santini, Chiavaroli, Baretta… »), si impegna per pilotare la scelta del suo successore. «È bene che rimanga Signorini, io temo che la presidenza metterà qualcuno». E Signorini rimane.
Per dire quanto sia stretto il legame tra i due, ancora il 6 febbraio, un mese e mezzo fa, Lupi chiedeva a Incalza, che in teoria non aveva più incarichi, di avvisare Signorini dell’assenza nella lista delle opere trasmesse al Cipe del progetto della SS106. E il 25 febbraio è Antonio Bargone, ex sottosegretario ai Lavori Pubblici, a lamentarsi con Incalza perché il suo pupillo «non è sollecito nel rispondere alle sue richieste».
La triste monotonia della corruzione
Tutte le situazioni in cui emerge l’onestà in Italia sono diverse l’una dall’altra: dal tassista che restituisce la borsa dimenticata dalla cliente, alla cassiera che ti insegue perché hai dimenticato il resto. Tutte le situazioni in cui emerge la disonestà sono invece perfettamente eguali l’una all’altra.
(Claudio Pavoni -http://politica.diariodelweb.it) - ROMA- Tutte le situazioni in cui emerge l’onestà in Italia sono diverse l’una dall’altra: dal tassista che restituisce la borsa dimenticata dalla cliente, alla cassiera che ti insegue perché hai dimenticato il resto.Tutte le situazioni in cui emerge la disonestà sono invece perfettamente eguali l’una all’altra.
Cominciamo dal contesto. Primo: c’è da assegnare un appalto pubblico milionario. Secondo: il dirigente ministeriale fa in modo che sistematicamente venga assegnato agli amici degli amici. Terzo: il destinatario dell’appalto fa lievitare i costi all’inverosimile senza che nessuno gli contesti l’irregolarità. Quarto: una parte dei profitti fanno una conversione ad «u» per tornare alla prima casella, quella del dirigente o del politico che hanno guidato e indirizzato la concessione dell’appalto. Quinto: qualche volta può capitare, come recentemente in Sicilia che i lavori siano fatti talmente male che rischia di saltare il pilone che dovrebbe sorreggere l’autostrada nuova di zecca. Sesto: improvvisamente saltano fuori le intercettazioni che svelano la «normalità» dell’intreccio fra affari sporchi e politica. Settimo: parte la nenia di accuse e difesa. Le due parole delle quali tutti sembrano non poter fare a meno è : «macchina del fango». Ottavo: molto gettonata è anche la frase:«fare chiarezza. Nono: ci finisce inevitabilmente per parlare di case, regalate o con l’aiutino. Decimo: sulla scena irrompono nell’ordine: figli, fratelli, mogli, cognati, amanti, conviventi, padri, compagni di scuola.
Se non fosse per la pena di verificare ogni volta che siamo costretti a vivere in un paese che non riesce ad emergere dal proprio fango ( in questo caso l’uso del temine è più che appropriato) ci sarebbe da dire «ci risiamo, che noia». Lasciamo stare quindi l’inevitabile e inutile indignazione e cerchiamo perlomeno di capire se tutta questa cultura decennali dovuta a scandalia ripetizione ci possa perlomeno fornire qualche chiave di lettura. A proposito di lettura consiglio la visione di un libricino, si intitola la «Nomenklatura. Chi comanda veramente in Italia» e porta la firma di due giornalisti di «Repubblica», Marco Panara e Roberto Mania. L’opera che vi consigliamo non elenca una serie di scandali, ma scoperchia con grande precisione quali siano i meccanismi legali attraverso i quali si possano infiniti obiettivi illegali.
Insomma Panara e Mania mettono allo scoperto tutti gli scalini che portano all’unico risultato che la «nomenklatura» insegue senza sosta e senza soluzione di continuità: la conquista di pezzi dello stato, l’arricchimento personale, della propria famiglia, dei propri sodali. La novità rispetto ad un passato meno aggressivo e che ora la «nomenclatura» tutto ciò non lo vuole solo«qui e ora», ma per sempre. Così come una volta erano abituati ad aspettarsi gli appartenenti all’aristocrazia. Ora i titoli nobiliari si chiamano: Consiglieri di Stato, tecnocrati, alti burocrati, capi di gabinetto, Ragionieri generali dello Stato, funzionari parlamentari, direttori generali di ministeri. Sono carriere che si tramandano di padre in figlio, di partito in partito, di scandalo in scandalo: in un parola è l’Italia che conta e che vuole continuare a contare.
Che cosa si può fare per rompere i fili tossici che tengono insieme questo nodo scorsoio che si stringe intorno al Paese e alla gola dei cittadini onesti? Nel breve poco o niente. A meno che la nostra disperazione sia arrivata al punto di smascherare tutta la disonestà che alberga intorno a noi, e a volte anche dentro di noi. Guardiamoci intorno e cerchiamo di individuare quanta «nomenclatura» ci sfiora ogni giorno e nel nostro piccolo trattiamola per quello che è e non per quello che gli abiti che indossa, le belle maniere, le belle case che abita fa credere di essere.
Forse perderemo qualche amico o conoscente. Ma potremo cominciare a sentirci un po’ meglio.
Inchiesta Sistema: così funzionava il sistema dei soldi e delle provviste
I soldi, ma dove sono i soldi nell'inchiesta "Sistema"? Le dazioni, le mazzette, le tangenti, il guadagno illecito? I carabinieri del Ros e i pm Turco, Mione e Monferini indicano qua e là alcune cifre nelle migliaia di pagine degli allegati all'ordinanza di custodia cautelare che ieri ha portato in carcere il supertecnico Ercole Incalza, l'imprenditore Stefano Perotti e i due assistenti Francesco Cavallo e Sandro Pacella. In questo sistema affaristico-criminale i privati hanno incassato "dall'1 al 3 per cento del valore dell'appalto". Poiché parliamo di appalti e direzione lavori "per circa 25 miliardi", ne deriva che "il guadagno illecito transitato negli undici anni dell'era Incalza oscilla tra i 250 e i 750 milioni". Spesso il valore degli appalti è lievitato anche del "40 per cento".
I magistrati hanno messo al centro dell'inchiesta, in qualità di "motori" di provviste e guadagni illeciti la legge sugli Appalti e la società Green Field System che diventa lo stomaco che incassa e digerisce parcelle e compensi sotto la parvenza di incarichi e consulenze di vario genere. Incalza e Perotti risultano essere, dalle indagini, soci prima in chiaro poi con prestanome della stessa società, dei soci della Green Field system.
La legge sugli appalti è di per sè, scrive il gip, "il grimaldello per assicurare al vincitore della gara che l'importo di aggiudicazione debba intendersi puramente indicativo, una cifra di partenza su cui calcolare rialzi già tacitamente concordati". Nel momento in cui, infatti, la legge garantisce la coincidenza di ruoli controllore-controllato in capo al project manager che è anche direttore dei lavori, è chiaro che questo "ha consentito sistematicamente che l'importo dei lavori delle grandi opere si gonfiasse a dismisura, assecondando ogni richiesta o "riserva" ed anzi svolgendo la propria attività nell'esclusivo interesse di tale impresa". Non solo: la direzione lavori ha assunto "Ia funzione di mero strumento per far transitare su società e soggetti privati enormi somme di denaro (dall'1 al 3 per cento del valore dell'appalto), prive di sostanziale giustificazione. Le prestazioni professionali realmente rese - continua il gip - sono da inquadrare nel prezzo di una dazione corruttiva, utilità illecite in favore del sodalizio medesimo, costituite dallo stesso conferimento dell'incarico professionale di direzione lavori, e spesso anche da una miriade di assunzioni od incarichi di consulenza collaterali alla gestione dell'appalto, del tutto fittizi, in favore di amici degli amici del pubblico ufficiale o di suoi prestanome o accoliti". L'esecutore dell'appalto, infatti, ha la massima convenienza a "mettersi in casa" un direttore dei lavori compiacente, che asseconda le sue pretese economiche e che garantisce un atteggiamento collaborativo.
L'ALTA VELOCITÀ? LO STIPENDIFICIO Vari passaggi dell'ordinanza ricostruiscono il sistema che viene chiamato "lo stipendificio". Stefano Perotti, con Incalza l'altro dominus del sistema che lo ha beneficiato di ben 17 direzioni generali di altrettante grandi opere, dall'Alta Velocità all'Expo e persino l'autostrada in Libia, "non svolge neppure gli incarichi che gli sono stati affidati o li esegue con modalità tali da non giustificare gli enormi proventi che percepisce". Il 14 ottobre 2014 Massimo Fiorini, uno degli indagati per cui il gip ha rigettato l'arresto, parla al telefono con una persona ancora da identificare e gli dice con chiarezza che la società Ingegneria S.P.M (di Perotti) che ha vinto, si fa per dire, la direzione lavori Alta velocità "ha ricevuto 70.000.000 di euro senza aver svolta alcuna prestazione. Siamo arrivati al massimo a 70 con la CMC" e, successivamente, chiarisce, con riferimento al consorzio Cavet: "Il 4% di fee, di patronage si chiama, per non fare un c..., un ufficietto in Fiat". Due imprenditori, Saraceno e Santini, coinvolti nei cantieri dell'Alta velocità, a proposito di Perotti, dicono che "non è mai in cantiere, loro non hanno mai fatto un cazzo e alla fine questo non è che sia uno stipendificio dove si piglia i soldi senza fare un c..." . Anche Leonardo Bernardoni (Tesifer) al telefono con Santini dice che è "indispensabile interrompere i pagamenti alla S.P.M., sono 3.300 euro al mese, una marchetta che non ha alcun senso riconoscere".
GLI STIPENDI DI INCALZA E LA GREEN FIELD SYSTEM Il gip dedica più capitoli al nodo della società e al suo ruolo di grande stomaco per assumere incarichi, incamerare proventi e poi distribuirli ai suoi veri soci. "La società Green Field Systems ha versato ingenti somme di danaro a Ercole Incalza tra il 1999 e il 2008". In una nota del 4 giugno 2014 l'Ufficio Antifrode della Direzione Regionale della Toscana dell'Agenzia delle Entrate, certifica che " Incalza ha percepito 697.843, 50 euro dalla Green Field Systems s.r.l". Il Ros annota che Incalza ha guadagnato più con la società che non con il lavoro al ministero. Anche Pacella e Perotti sono stati beneficiati dalla GFS. Sandro Pacella "ha percepito 450.147 euro tra il 2001 e il 2008". Tra il 2006 e il 2011 sono state clienti della GFS "società riferibili a Stefano Perotti, la STIC srl, la SPM Consulting srl, Vertical PMC srI,. Tra i clienti anche la società "Ferrovie del sud-est" riceve 181.433 euro nel 2006; 429.396 nel 2007, 1.403.000 nel 2010 ed 328.000,00 nel 2011.
"Da una prima analisi - scrivono gli investigatori - si può ritenere che una parte delle entrate dalla società Green Field Systems hanno trovato fonte, direttamente o indirettamente, da Stefano Perotti e dalla società Ferrovie del Sud Est che sembra essere, in qualche modo, strettamente legata a Sandro Pacella e ad Ercole Incalza, in virtù dei vincoli istituzionali e delle loro relazioni personali. Buona parte delle uscite della società Green Field Systems sono state dirette ad Ercole Incalza e a Sandro Pacella".
Formalmente, dunque, la Green System risulta intestata a Salvatore Adorisio (30%) e ad Angelantonio Pica (70%). I carabinieri del Ros sono convinti che anche Perotti e Incalza facciano parte della società. Ci sono varie intercettazioni in cui si parla di questo. Così come a dicembre 2014, quando Incalza va finalmente in pensione, lui stesso, la figlia, e anche Perotti dicono che "Incalza andrà a lavorare in ufficio". In previsione di questo trasferimento, i carabinieri notano una vorticosa consegna di buste e oggetti, "pacchi" e "saluti". Il 26 gennaio 2015, Sandro Pacella, factotum di Incalza, comunica ad Angelantonio Pica che dovrà portare alla sede sede della GFS "ulteriori pacchi in vista del trasferimento definitivo di Ettore Incalza". Pacella commenta: "E porta, porta pure i saluti finali". Scrive il gip: "Tale espressione richiama quelle utilizzate dagli interlocutori nei giorni precedenti. Il 19 gennaio quando Pica dice '... può darsi che vi posso anche salutare in modo diverso" ed il 20 gennaio 2015 quando ripete: "Vi posso salutare in modo diverso". A dirimere qualsiasi dubbio sulla vera natura dei "saluti finali", arriva la risposta di Angelantonio Pica. Che, sorpreso ed infastidito, replica: " ... eh la Madonna, siete voraci siete, siete come le lumache ...".
IL SILENZIO (inconsueto) DEL PREMIER SPACCONE
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Un importante ministro del suo governo è da due giorni sulla graticola per i favori che riceveva dalla banda delle Infrastrutture e il presidente del Consiglio tace ostinato, nella speranza che lo scandalo si risolva da solo. Nessuna parola, neppure un twittino.
Maurizio Lupi dovrebbe dimettersi, nelle intenzioni di Renzi, e sgombrare così il campo da un caso imbarazzante, che sembra fatto apposta per dar ragione ai magistrati che lo accusano di preferire loro i corrotti.
Ma il ministro ciellino è un osso duro, sa che senza il suo partito il governo non sta in piedi e intende resistere. Addirittura pare che Renzi sia intenzionato ad affrontare il voto sulla mozione di sfiducia individuale lasciando libertà di scelta al suo partito.
Magari oggi Renzi smentirà tutti e finalmente aprirà bocca, ma intanto colpisce l’inconsueto silenzio del premier spaccone, il leader che chiedeva con forza le dimissioni del ministro Cancellieri quando a Palazzo Chigi c’era Enrico Letta. Forse è proprio questo quello che conta: la morale di Renzi varia a seconda di chi è al governo. Se ci sta lui, meglio il silenzio e provare a tirar dritto. Renzi sta sereno come un pesce in barile.
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