sabato 31 gennaio 2015

Napolitano e il ricatto storico della mafia allo Stato

Una scena del film di Francesco Rosi
Una scena del film di Francesco Rosi "Salvatore Giuliano" (1961)

Con il grande show mediatico (anche se i giornalisti non erano ammessi, lo scopo è stato raggiunto) costruito intorno alla deposizione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che avrebbe risposto a 40 domande dei giudici del processo sulla cosiddetta "trattativa" stato-mafia, magistrati e cariche politiche –  all'apparenza su fronti opposti –  hanno raggiunto (consapevolmente?) il medesimo risultato: hanno per l'ennesima volta "contaminato" l'idea che l'opinione pubblica italiana dovrebbe avere del secolare rapporto tra mafia e stato.
Infatti i magistrati che hanno messo su questo incredibile (e inutile?) processo sulla "trattativa", sembrerebbero voler far credere che i rapporti tra mafia e stato italiano siano stati "in conflitto" fino a quando qualcuno dentro le istituzioni non ha deciso di cedere alle richieste dei mafiosi. Papello o non papello, la "trattativa" sarebbe appunto un momento in cui lo Stato, rappresentato da politici per lo più deboli e codardi, "cede" alle pressioni militari mafiose. Ma davvero? 
In un certo senso si avvicina più alla realtà del rapporto mafia-Repubblica italiana (direttamente ereditato da quello Mafia-Stato neo unitario e poi liberale) la considerazione che il presidente Napolitano avrebbe fatto ai giudici mentre gli ponevano le domande, e cioè che nel tragico e sanguinoso biennio 92-93 più che una "trattativa" ci sarebbe stato un "ricatto". La scelta di Napolitano di usare proprio questa parola (o, come avrebbe detto, "aut aut"), sembrerebbe semmai segnalare ai magistrati che lo interrogavano – ma fanno finta di non capire o sono degli sprovveduti sulla vera natura della mafia? – che Riina e Provenzano potevano appunto "ricattare" la Repubblica per chissà quale "indicibile segreto". Cose di Cosa Nostra del passato che sarebbero potute uscir fuori se lo stato italiano, a guerra fredda ormai finita, avesse continuato a snobbarli e a non accontentarli nelle loro richieste (contro il carcere duro innanzitutto).
Una trattativa di solito avviene tra due parti in conflitto che si combattono ma che ad un certo punto cercano di mediare, di trovare una tregua alla loro "guerra" per risolvere una situazione che danneggia entrambi i contendenti. 
Ma lo Stato italiano, con la mafia siciliana, in guerra non c'è stato (quasi) mai. Per carità, alcuni magistrati, poliziotti, carabinieri e qualche politico, a costo del sacrificio altissimo della loro vita, hanno valorosamente combattuto la mafia. Ma Cosa Nostra alla fine poteva anche eliminare questi coraggiosi "servitori dello Stato", perché quello stesso Stato in più occasioni non vedeva l'ora di liberarsi dei loro scomodi servizi. I mafiosi, al contrario delle loro vittime, non sono coraggiosi leoni che attaccano senza paura, ma come gli sciacalli e le iene, assalgono solo gli animali feriti e lasciati isolati dal branco. Prima di spingersi al delitto, il mafioso vuole annusare l'atmosfera d'impunità.  
La mafia, e ci sembra di ripeterci ogni volta, si chiama mafia (invece che criminalità organizzata, gangsterismo etc) perché non è una organizzazione che si crede (e cerca fin che può di non essere) in guerra con l'autorità formale, ma semmai aspira (e quindi pretende) di esserne utile strumento per poi condividere poteri e privilegi sul territorio che "aiuta ad amministrare". "Strumento di governo locale" , come disse il deputato Diego Tavianj (ex magistrato a Palermo) in una famosa seduta parlamentare ripresa dalle prime pagine dei giornali italiani, tenuta al Parlamento italiano nel 1875, appena 14 anni dopo l'Unità!
Allora, autorevolissimi magistrati, certo andatelo pure ad ascoltare quel galantuomo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (che all'epoca dei fatti '92-93 era la terza carica dello Stato come presidente della Camera) ma non date false e devianti impressioni all'opinione pubblica italiana, come se si volesse dimostrare che venti anni fa degli ignavi politici italiani fecero qualcosa di inaudito. Anzi, proprio il contrario: nel 1992-93 la mafia metteva le bombe e uccideva perché una parte della politica (incluso, anzi, soprattutto, Giulio Andreotti) a ormai Guerra Fredda conclusa, si apprestava a scaricare il secolare rapporto tra Stato italiano e mafia.
In Italia la migliore storia contemporanea, o comunque non più vecchia di 150 anni, non la si trova nei libri del liceo. La si trova solo nei romanzi e al cinema. Per quanto riguarda l'origine, sviluppo e influenza della mafia e del suo rapporto con l'Italia unitaria fino a quella Repubblicana, bisogna quindi leggere Leonardo Sciascia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa o guardare i film di Francesco Rosi. Di quest'ultimo consigliamo ai nostri lettori di rivedere Salvatore Giuliano, del 1961, proprio quando Sciascia usciva con Il giorno della civetta e anche Il Gattopardo si affermava come il romanzo italiano best seller di tutti i tempi. Riguardatelo il film di Rosi alle prese col bandito accusato della strage di Portella della Ginestra. Guardate come gli ufficiali dei carabinieri si rivolgono ai capi mafia, gli scambi in atto, le coperture e i favori. Film dei primi anni Sessanta, che dice già tutto sulla "trattativa" di allora, e quindi dei possibili "ricatti" del 1992-93. 
Il processo di Palermo sulla pseudo "trattativa" dopo le stragi dei primi anni Novanta, potrebbe solo confermare quello che la rigorosa letteratura e il formidabile cinema italiano hanno già descritto, quasi in "contemporanea" ai fatti, mentre accadevano. Invece, almeno da quello che oggi ne riportano i maggiori quotidiani italiani, ora la magistratura italiana sembra pretendere di rivelare una "novità", mettendosi così di traverso alla storia. E i popoli che non conoscono la propria storia, purtroppo, tendono a ripeterla. 
Stefano Vaccara

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