Dopo Charlie questa giornata non sai che scrivere. Leggi un articolo dopo l’altro, svuoti le rassegne stampa; ripassano sotto gli occhi le immagini video e i volti dei redattori.
Ti alzi, giri attorno al tavolo senza sapere che cosa fare prima, e che cosa valga la pena di essere fatto. Allora paghi le bollette. Torni a qualcosa che non ti faccia sembrare di buttare il tempo, di essere ancora vivo sulla morte di quelli e in faccia alla brutalità. Ti fai la barba. Prendi il terzo caffè. Ma anche il caffè finisce. Esci in balcone a fumare sperando che le idee si schiariscano e rientri che sono più torbide.
Ti poni le stesse domande che potresti avanzare al barista e discutere con quello che ha appena ordinato un bianchetto. “Sotto controllo dei servizi segreti”. “Riconosciuti da una carta d’identità abbandonata sul sedile di una Citroën”. “Addestrati da professionisti”.
E i conti non tornano.
Non tornano perché ti aspetti che un professionista non dimentichi un documento su un’auto; non ti aspetti che in un’azione proprio lo porti con sé un documento. Non ti aspetti che siano lì proprio quando sanno che il danno sarebbe maggiore, il giorno della riunione di redazione, ma sbagliano indirizzo. Non tornano perché acquistare un kalashnikov non è cosa semplice, né farlo entrare in un paese dall’estero, specie se appena accaduto l’eccidio, le autorità si preoccupano di dichiarare che i due fratelli franco-algerini, Cherif e Said Kouachi, erano sotto controllo da tempo. A capo di una filiera di reclutamento per l’Isis, dicono; rientrati in estate dalla Siria, dicono; le foto compaiono a poche ore dall’attentato. E i conti non tornano. Come fai ad acquistare un kalshnikov, o farlo entrare in un Paese, se i servizi segreti hanno gli occhi puntati su di te?
Non tornano perché il tempo di un caffè, di una sigaretta sul bancone basta a che si accalchino le letture di questi ultimi anni.
E torna in mente Le Monde Diplomatique letto a Buenos Aires l’aprile 2006 che trattava diffusamente della terzionalizzazione della tortura. ù
Di come cioè gli Stati Uniti inserissero nelle loro blacklist “stati canaglia” salvo poi utilizzarli, via Cia per far fare a quelle polizie, a quei servizi segreti, ai loro sgherri il lavoro sporco della tortura, quella vera, dell’assassinio.
E vennero fuori numeri di targa delle auto usate, codici di volo, percorsi, date delle irruzioni e degli sparimenti di persone che le scorribande della Cia in Europa faceva a caccia di islamici fondamentalisti. Sulla «Repubblica« quell’anno si cominciò a parlare di Abu Omar in ottobre.
Torna in mente il mea culpa statunitense con la recente paura dell’Isis fondamentalista. Tornano in mente gli editoriali arabi che «Internazionale» tradusse per far sapere al pubblico italiano, prima e durante le primavere arabe, in quale grave condizione versasse quel mondo arabo laico, o islamico moderato, fatto di gente comune e intellettuali, che aveva il fiato corto nel premere continuo alla destabilizzazione del Medio Oriente. A quale ruolo avrebbe potuto giocare nelle società arabe e nel mondo intero, se solo non lo si fosse ridotto al timore, al silenzio, a nascondersi in fondo. E a quanto pericoloso fosse, che il mondo arabo laico, o islamico moderato, venissero messi a tacere.
Insomma i conti non tornano. Non tornano anche perché son conti da bar, confusi con quelli per tenere un punteggio a carte, più che svogliati, confusi. Dettati dallo scoramento e anche dalla paura, la paura di perdere il filo del discorso, il raziocinio della riflessione, la compostezza dell’oggettività. E sono pensieri rabbiosi. Perché sembra morire con la morte dei redattori francesi, come mille volte ormai, anche la possibilità di avere un nemico certo, visibile e concreto, che sbattuto in prima pagina sia riconoscibile. Rabbiosi perché i conti che non tornano fanno riaffiorare letture e pensieri che a uno a uno hanno un senso, affollati paiono soltanto più rumorosi.
Chiamerei la dietrologia dietropatia, perché ha poco della scientificità, poco della riflessione e molto della paura di lasciarsi abbindolare, di lasciarsi attrarre da una parte all’altra dell’arena da un drappo rosso che ci svolazza sotto gli occhi. I conti non tornano e alla rabbia per la morte dei redattori di Charlie Hebdo si assomma quella di non sapere contro chi gridare in fondo se non contro alla violenza qual che sia. Ed è molto poco. Metto insieme un’acrobatica riflessione; pare persino lineare, tanto da indurmi a pensare che a mettere insieme servizi segreti, Cia, fondamentalismo islamico ci sia piuttosto da additare l’uno per circonvenzione di incapace, l’uso strumentale della credenza e del fanatismo per scopi propri, facili da occultare nelle piazze gremite poi dello sgomento e della rabbia.
Adesso a chi daremo la colpa per l’eccidio di Charlie? A quei due? È giusto. È tutto però?
La dietropatia ha il difetto di lasciar parlare le viscere quando la mente è vuota e spera che caffè e sigaretta non finiscano, perché dopo, bisogna trovare di nuovo qualcosa di sensato da fare.
Massimo Donato
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