venerdì 28 novembre 2014

La Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia rivista dai bambini.

Il diritto ad avere un proprio albero e un orto. A non far niente, ad essere incoraggiati, a non essere i primi, a sporcarsi, a non essere d’accordo, all'abbraccio. La Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia rivista dai bambini.
"Allora, maestra, i diritti valgono tutti i giorni e non solo oggi, giusto? Valgono per tutti e non fanno distinzione, vero maestra?"


«Sai maestra, papà è partito questa notte per Napoli, va a scioperare… dicono che è pericoloso».
«Stai tranquilla, andrà tutto bene»
Il suo papà è un metalmeccanico, cassintegrato, la fabbrica è l’Ilva e lo sciopero è generale.
Sì, i diritti sono di tutti, dei piccoli e dei grandi, e non lo dice la maestra, lo capiscono da soli. Quelli dei grandi sono per le cose grandi, dicono, come il lavoro in fabbrica, e quelli dei bambini, che invece in fabbrica non ci vanno, sono per le piccole cose. Noi ci alleniamo con i diritti piccoli a crescere e a diventare grandi, dice convinto Nicolò.
A scuola è il secondo giorno della nostra tavola rotonda sui diritti dell’infanzia. Non sanno ancora della Convenzione (Pdf), di cosa hanno deciso i grandi per loro. Sono felici, perché in questo giorno non avranno compiti, e pensano che il diritto sia poter fare quello che vogliono. Giocare, dipingere, ballare, oziare. Comandare. Il potere ai bambini. Sono convinti che in questo giorno possano finalmente farlo, possono ordinare loro – i piccoli ai grandi – le cose da fare.
b
Ragionano. Si scontrano. Sono in disaccordo. Non è come dici tu. Se la prendono con l’unico che ha osato dire che viene prima il dovere e poi il piacere. Non è così.Vogliono far tutto con piacere, lo vogliono spalmato sul dovere come il cioccolato nel rotolo di pasta biscotto.
Il diritto che cos’è non lo sanno dire.
Tocca a me. Dico di pensare ai loro bisogni. Che i bisogni sono dei sogni che chiedono il bis, che allora prendono peso, hanno sete, chiedono cibo, cercano casa e amore, scarpe per andare. Domandano ciò che gli spetta. Per vivere. Che necessari come sono diventano regole per tutti e allora li chiamiamo diritti. Un bene che nessuno ci può togliere. Perciò dobbiamo conoscerli, pretenderli, e se qualcuno ce li ruba dobbiamo difenderli.
In agguato c’è la retorica, il buonismo. Mi sospendo, come un ragno appeso al filo dondolo nel vuoto. Penso ai diritti che ci vengono rosicchiati un po’ per volta, che uguali lo siamo sempre di meno, sempre più diversi in un verso cattivo, quello degli uni contro gli altri, della povertà che dà fastidio, dei minori rifugiati, orfani,mandati via in un esemplare infernetto.
Penso all’inferno dell’Ilva. «Nel mio reparto di recente ne abbiamo persi due, di tumore alla tiroide. Siamo a rischio. E lo stipendio di dicembre chissà se lo avremo» mi dirà qualche giorno dopo il papà della Fiom. Lavoro e salute, qui non si conciliano.
Penso alla scuola che stiamo perdendo, che si prende il lusso del tempo per dipanare i pensieri, per districarli uno per volta e provarne l’estensione e la tenuta. Che dà la parola a tutti e aiuta chi le parole non le ha. Penso al fatto che siamo sempre più soli. Vincibili. Estranei.
Mi sento fragile ed eguale ai bambini davanti alla verità e all’errore, davanti al bene e al male, come direbbe Adolphe Ferrière.
I diritti dovrebbero valere di più per chi non li ha, sostiene Salvatore. Sono tutti d’accordo. I ricchi possono “comprarseli” come vogliono, conclude Nicolò.
Non riesco a fermarli. Dicono i loro diritti come vengono, come vogliono. Facciamo il braistorming e dopo proviamo a metterli in ordine come priorità e vicini per affinità. Ne indicano 67, solo perché il tempo è scaduto. Usano il diritto naturale alle sfumature, negoziano la loro accezione e la motivano. Il diritto alla scuola è diverso dal diritto ad imparare perché s’impara ovunque mica solo a scuola, e il diritto alla conoscenza riguarda anche le persone che prima non si conoscevano, e il diritto ai libri vale per tutta la vitaIl diritto a non far niente è diverso dal diritto al riposo come dal diritto alle pause e ad avere tempo. Difficile spiegarlo ai grandi.
L’aula diventa il parlamento del futuro semplice. Si riempie di proposte piene di senso e di grazia.
Il diritto alla natura, ad avere un proprio albero (loro non sanno che c’è una legge che prevede un albero per ogni neonato anche adottato per i comuni sopra i 15.000 abitanti), ad avere un orto, un cagnolino, uno spazio per sé, un ambiente pulito.
Il diritto ad essere “visti”, dice una bambina che viene da lontano. Ad essere incoraggiati. A non essere esclusi. Il diritto ai sentimenti, ai desideri. A pensare e a dire ciò che si pensa. A non essere d’accordo. A scegliere, a decidere, a sbagliare, a non essere perfetti, a non essere i primi. Ad organizzarsi da soli. Il diritto alle esperienze, all’avventura, a costruire, a sporcarsi. Il diritto a fare del nostro meglio, alla fiducia, a sapere la verità, ad avere i propri segreti e a seguire il proprio sogno. Il diritto alla paghetta, alla gentilezza, ad essere sereni, alla felicità…
Una bimba con un fil di voce indica il diritto alla semplicità. E ogni cosa sembra tornare al suo posto, senza complicazione. Il diritto a sorridere. Non fateci del male. Abbiamo diritto all’abbraccio e al futuro.
Allora, maestra, i diritti valgono tutti i giorni e non solo oggi, giusto? Valgono per tutti e non fanno distinzione, vero maestra?


*Maestra di una scuola primaria pubblica, vive a San Michele Salentino (Brindisi).

RIBELLARSI FACENDO.
Cominciavamo con la primavera. Quando la luce si allunga e l’aria sa di mandorle. Come gli uccelli, qualcuno fischiava e gli altri arrivavano. Eravamo bambini e bambine e avevamo la strada tutta per noi.
Vuota e libera, dove tutto poteva accadere. Sotto il segno del gioco si diventava abili a saltare, a correre, a nascondersi, a diventare amici, a fare i grandi. A costruire strani rifugi all’ombra di un orto. A salire sugli alberi per rubare le ciliegie. A farsi male e a sapersela vedere da soli. Con la polvere addosso, il sudore e il sangue e anche le lacrime.
Noi bambine non eravamo da meno. Imparavamo a cadere e a perdere. La palla era un mondo che ci passavamo di mano in mano. Con strane cantilene, dove riprendevi da dove sbagliavi. Ed era così lungo che non finiva mai, nessuno vinceva e gli insicuri avevano tutto il tempo per migliorare. Giocavamo con i sassolini che stavano in una mano, conoscevamo le pietre per scrivere ‘ti amo’. Costruivamo case di cartone e ci sposavamo con l’abito della mamma che ce lo dava davvero. S’imparava col corpo. Coi graffi, le sbucciature, le agilità, le spinte, i calci, gli abbracci. Sotto e sopra la fune stringevamo legami. Apprendevamo nel libero stato del gioco i riti della felicità.
Nel mio paese hanno giocato intere generazioni. Le auto cambiavano strada per non interrompere i giochi e i raduni dei bambini. Che stavano da soli. Senza adulti. Che imparavano ad autoregolarsi, litigando e facendo la pace perché conviene. Perché se tornavi a casa piangendo poi non uscivi più. E allora toccava capirla l’arte di stare al mondo. Pedala pedala e attenta a non sfracellarti alla discesa. I più grandi ti spiegavano come fare.
Anche la pipì s’imparava a farla dove ci si trovava. Noi bambine ci sedevamo sul marciapiede tutte insieme e la vedevamo scorrere in un rigagnolo comune che ci faceva ridere. Che segnava il nostro territorio, proibito ai maschi.
Hanno giocato fino a un po’ di anni fa. Poi i bambini sono spariti. Li abbiamo chiusi per proteggerli. Nelle case, nelle palestre, nelle piscine, nei campi da tennis e da calcio, a lezioni di musica. Chiusi anche quando stanno all’aperto. Sempre con l’adulto che controlla, che stabilisce le regole, che chiede la prestazione del giorno, che organizza il modo e il tempo dello stare insieme- se si riesce a stare insieme. Se no si rimane soli col proprio tablet a giocare il gioco degli altri.
I bambini hanno perso la strada, maestra. E con lei la fiducia di poter star da soli in mezzo ai pari. Una scuola senza fissa dimora che insegna con i suoi riti e le sue iniziazioni a credere in se stessi, in quella strana dismisura del tempo gratuito e senza scopo, che modella il chi siamo nell’incontro scontro col mondo. Che ci abitua a creare e a guardare nel vuoto per tirarne fuori quel che ancora non c’è.
I bambini di oggi sono stati rapiti e legati ad uno schermo col potere del clic. Sono più soli, spesso senza fratelli o sorelle. Sono più maldestri nei giochi di movimento e di gruppo. Vogliono vincere. Essere i primi, i più veloci e i più forti. Tutti campioni e principesse di mamma e papà. Ci restano male perché quasi mai nella vita è così, ma il videogiochi questo non glielo insegna. E la strada ora è cattiva. Fa paura. E’ piena di draghi da sconfiggere.
Quand’ero bambina, dall’angolo buio in fondo qualcuno prima o poi arrivava correndo, per dire: «Un due tre, liberi tutti».
Domani glielo insegnerò che ci si salva insieme.
Rosaria Gasparro

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