Cominciamo subito con il dire che
quello di cui si parla nella proposta, a dispetto del nome, non è un reddito
di cittadinanza, ma semmai un reddito minimo garantito: ciò che si
prospetta, infatti, non è una prestazione universale erogata in base al fatto di
essere cittadini (italiani, in questo caso), ma semmai una integrazione al
reddito che permette a chi ne percepisce uno inferiore o non ne percepisce
affatto di arrivare a 600 euro il mese - se si tratta di una persona singola
- o alla soglia di povertà relativa, nel caso di un nucleo familiare che conti
due o più persone.
I limiti di un tale assetto sono evidenti:
il singolo non ha, neppure in presenza di quella che potrebbe essere
un'evoluzione nel suo destino sociale ed economico, alcuna possibilità di scelta
individuale. Rimane vincolato alle sorti del nucleo cui appartiene, con le
conseguenze anche drammatiche del caso: si pensi alla situazione di un giovane
(se a 30 anni e oltre ci si può ancora definire così...), di un disoccupato, di
un/a separato/a che per sopravvivere è costretto a una convivenza sempre più
innaturale con la famiglia di origine, che, se non sprofonda nell'indigenza, è
molto probabile superi la suddetta soglia di povertà relativa. A questo punto di
vie di uscita istituzionali per individui in queste condizioni non ce ne sono
più: la condanna a una situazione di miseria, se non economica , sicuramente
umana, pare definitiva.
Altro punto critico il fatto che si
continui a utilizzare come indicatore economico uno strumento palesemente iniquo
qual è l'ISEE, che non tiene in alcun conto le spese che il singolo o la
famiglia devono affrontare nella vita quotidiana, a partire da quelle per la
casa.
Il progetto di legge in questione, inoltre,
considera a carico solo i figli fino al 25° anno di età o i figli
disabili, ma non fa menzione di coniugi disoccupati o di anziani ormai non
autosufficienti, ma non abbastanza da percepire l'indennità di accompagnamento e
titolari di una pensione irrisoria, che però fa reddito e quindi può contribuire
a superare la fatidica soglia della povertà oltre la quale non si ha diritto
a nulla. Eppure contingenze del genere non sono certo rare e sempre meno lo
saranno man mano che regimi pensionistici vessatori entreranno a pieno
regime.
Naturalmente, oltre a essere in condizioni
esistenziali estremamente critiche, il beneficiario del reddito di
cittadinanza deve ottemperare a determinati obblighi. Innanzitutto quello di
mettersi a disposizione del Comune di residenza per progetti di volontariato
per un minimo di 4 ore settimanali: a parte che si ravvisa in questa norma
un ritorno alla corvée medievale, si apprende quasi con sgomento che tali
progetti devono essere compatibili, "nel caso di disabili e anziani, con le loro
capacità". Se ne deduce che disabili e anziani non solo non sono ritenuti
meritevoli di essere sollevati dall'incombenza, ma che, nell'idea del
compilatore della proposta, non abbiano nemmeno più diritto a pensioni di
invalidità e/o di anzianità, ma ci auguriamo che questa non sia che
un'interpretazione errata del tes to.
Oltre a ciò, il percettore del reddito
(se questo viene erogato a una famiglia, si suppone che l'obbligo ricada in capo
al capofamiglia) deve naturalmente dare immediata disponibilità al lavoro presso
il Centro per l'Impiego cui fa riferimento per competenza territoriale.
Subito alcune incoerenze che non è possibile non sottolineare: perché il
volontariato coatto di cui sopra non è considerato lavoro a tutti gli effetti,
dato che non è altro, e perché chi lo svolge non viene regolarmente assunto per
farlo? Com'è possibile che una legge sul reddito di cittadinanza ratifichi a
pieno titolo il furto di lavoro e conseguentemente di reddito che potrebbe a
pieno titolo derivarne?
Inoltre, i Centri per l'Impiego sono
attualmente di competenza delle Province, cioè di quegli Enti
tendenzialmente morituri il cui destino è però ben lungi dall'essere chiarito e
della cui estinzione il M5S è uno dei più fervidi sostenitori: se le cose
andranno così, a che livello saranno gestite le pratiche? Comunale,
regionale, come? Non è dato saperlo.
Tra l'altro la legge sancisce la nascita
dell'Osservatorio nazionale del mercato del lavoro e delle politiche di
welfare, un organismo che, senza oneri aggiuntivi per la finanza
pubblica (opererà con personale più o meno volontariamente trasferito? Sarà dato
in mano alla solita galassia di entità abituali aggiudicatrici di appalti?),
avrà o avrebbe una pletora di compiti di monitoraggio e la cui funzione appare
sinceramente la replica di quella di tanti altri istituti consimili già
esistenti.
Comunque, come si diceva, il
beneficiario del reddito di cittadinanza deve essere immediatamente disponibile
a lavorare, il che pone subito due problemi di importanza
saliente:
- quello che nei Paesi anglosassoni è
definito dei working poor, cioè il fatto che vi siano persone che non
arrivano a guadagnare nemmeno il minimo indispensabile pur
lavorando;
- quello, molto più intuitivo, che di
lavoro ce n'è sempre meno.
Del primo non si fa menzione; per ovviare
al secondo, invece, si propone il vecchissimo e più che abusato strumento della
formazione "orientata verso quei settori in cui è maggiore la richiesta di
lavoro qualificato", accompagnato dal prevedibile corollario di bilancio di
competenza, colloqui di orientamento, prove selettive, nonché una visita
settimanale al Centro dell'Impiego o all'agenzia di intermediazione (altro
soggetto previsto dalla legge) ai fini delle "ricerca attiva del
lavoro".
Si tratta di idee vecchissime, in auge
probabilmente da un quarto di secolo se non di più, e che nella maggior parte
dei casi sono funzionali e produttive solo per i soggetti preposti a metterle in
atto, ma assai meno per chi è costretto ad avvalersene - verrebbe da dire, a
subirle.
Non solo: perde il diritto al reddito
chi rifiuti per tre volte consecutive delle offerte di lavoro ritenute
congrue, cioè coerenti con le competenze del soggetto, che prevedano una
retribuzione corrispondente almeno al minimo stabilito dalla legge e una sede
di lavoro che non disti oltre 50 chilometri dalla residenza, raggiungibile con i
mezzi pubblici in un arco di tempo non superiore a ottanta minuti. 100
chilometri e/o 160 minuti (quasi tre ore!) di trasferimento quotidiano,
passibili di aumentare a causa di traffico, ritardi e altri facilmente
prevedibili accidenti, sono quindi la galera che bisogna accettare se non si
vuole tornare alle condizioni di indigenza iniziali. Da questa disponibilità
sono esentati esclusivamente le madri (o, in alternativa, i padri) di figli di
età inferiore a tre anni: nessuno sconto per i familiari di disabili, malati
gravi e anziani.
La legge prevede altresì lo stanziamento
di fondi da destinare a progetti di sviluppo di start-up innovative, ma non
specifica il significato dell'aggettivo, soprattutto in relazione alla
sostenibilità ambientale.
Decisamente discutibili poi le modalità
di riscossione del reddito di cittadinanza. L'importo di questo, infatti, è
incrementato del 5 % se il beneficiario accetta di ricevere l'erogazione su
carta prepagata e utilizza almeno il 70 per cento dell'importo della mensilità
precedente in acquisti fatti tramite la medesima carta prepagata - il tutto,
si afferma, "al fine di agevolare la fiscalità generale", cioè il tracciamento
dei pagamenti fatti con la carta in questione. Una misura decisamente iniqua
nei confronti di chi sceglie modelli di consumo "alternativi", per esempio i
GAS, e che sembra voler orientare a tutti i costi verso la grande
distribuzione, con la quale è più facile vengano posti in essere accordi per
l'uso delle suddette carte.
Ma non basta: "Il Ministero del lavoro e
delle politiche sociali di concerto con il Ministero dell'economia e delle
finanze stipulano una convenzione con la società Poste italiane e con
l'INPS finalizzata all'erogazione del reddito di cittadinanza tramite una
carta prepagata gratuita di uso corrente, e alla predisposizione di uno
strumento automatico utile a rilevare mensilmente l'ammontare della spesa
effettuata tramite carta prepagata ai fini dell'erogazione degli incentivi
di cui al comma 1", cioè del 5 % in più di cui sopra. Senza voler considerare i
problemi di privacy implicati - che non sono pochi -, fa accapponare la
pelle la convenzione con la società Poste italiane, in virtù delle nozioni ormai
di dominio comune sulla privatizzazione della Cassa Depositi e
Prestiti.
Diversi altri punti sono poi
suscettibili di sollevare osservazioni, dall'incentivo pari al reddito di
cittadinanza concesso alle aziende che assumono a tempo indeterminato, alla
copertura derivante anche dalle entrate dei giochi pubblici o dall'imposta
progressiva sui grandi patrimoni che però esclude gli immobili di proprietà di
persone giuridiche che sono utilizzati dalle medesime ai soli fini
dell'esercizio dell'attività imprenditoriale, nonché i fondi immobiliari e le
società di costruzioni. Ma a questo punto della disamina il "peccato
originale" dell'operazione è chiaro ed è altrettanto chiaro che non sta, a
dispetto del proverbio, nei dettagli.
È infatti l'impianto della legge nel suo
complesso a non convincere, la sua filosofia per nulla innovativa che
individua nel reddito di cittadinanza una concessione risicata da farsi in
assenza di un introito da lavoro "canonico", come se questa potesse essere
ancora vista come contingente e transitoria e non come il cambiamento
strutturale cui si informa questa epoca della nostra storia.
Nessun riferimento alla riduzione del
tempo di lavoro, al retribuire come tale - perché tale è - il tempo dedicato
alle cure familiari, alla tutela della propria salute anche tramite consumi
più corretti e alla propria crescita personale o alle attività ormai
classicamente definite di volontariato, che anzi, come si è detto, vengono
considerate un obbligo extra del beneficiario e non un soddisfacimento almeno
parziale della ricerca compulsiva di un'occupazione a tutti i
costi.
Nessun riferimento, appunto,
all'introduzione di criteri selettivi nella creazione di ulteriori aziende o di
ulteriori corsi di formazione (finanziati dalla spesa pubblica!) che non
siano una vaga "innovatività", quando dalla ridondanza di beni e servizi
superflui e inquinanti siamo palesemente circondati.
Nessun riferimento, al contrario,
all'importanza dell'invitare tutti, anche chi non è (ancora) in ristrettezze
economiche, a diventare parte di reti di collaborazione orientate al riciclo e
alla minimizzazione degli sprechi o, come anche si è posto in rilievo,
all'orientamento dei consumi in senso etico e sostenibile, tutte cose che
possono ridurre anche molto sensibilmente la dipendenza dal reddito
monetario.
In conclusione, un'occasione
potenzialmente rivoluzionaria andata persa. La domanda è: quando ne avremo
un'altra?
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