Uomo che lavora perde tempo prezioso.
(Proverbio cubano).
Il lavoro come tale costituisce la migliore
polizia e tiene ciascuno a freno . Esso logora straordinariamente una gran
quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al
sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare.
(F. Nietzsche,
Aurora, 1881).
Nasciamo, e
da bambini siamo più o meno liberi di giocare, esprimere il nostro potenziale,
le nostre pulsioni, il nostro essere. Man mano, crescendo, le strutture del
mondo in cui viviamo ci incasellano (e ci reprimono)[1] in un percorso già stabilito. Andiamo a
scuola (e già su questo ce ne sarebbe da discutere...), e se ci resta la
curiosità e la voglia di conoscere, proseguiamo il percorso di studi fino
all’università. O prima o poi, comunque, giungerà il momento di decidere “cosa
fare della nostra vita”. Ovvero in che modo “guadagnare da vivere”. Perché
“dobbiamo lavorare, per poter vivere” (anche se poi finiamo per vivere per
lavorare...). Davanti a queste frasi fatte dovremmo interrogarci su che cosa
significano davvero. Ci sembra naturale che dobbiamo passare la nostra vita a
lavorare? Che cosa significa davvero lavorare? Non potremmo vivere diversamente?
Esiste ancora il lavoro?
A cosa
serve lavorare?
Il lavoro
serve a farci avere dei soldi. Lavoriamo per avere in cambio un salario. E ne
abbiamo bisogno, per poter comprare tutto ciò che vogliamo. Fin qui sembra tutto
quadrare.
Offro il
mio tempo e le mie energie a qualcuno, che mi ripaga, permettendomi di poter
comprare ciò di cui ho bisogno. La questione sembra chiusa. Sembra conveniente,
il sistema così funziona, e siamo tutti felici. Ma già iniziano a palesarsi
alcuni dubbi: non tutti lavorano; non tutti coloro che hanno un lavoro sono
entusiasti di farlo, anzi, penso che la quasi totalità dei lavoratori non vede
l’ora che arrivino le vacanze, quel periodo, limitato, creato per non lavorare,
e fare ciò che si vuole; e magari non tutti sono felici di lavorare per 8-12
ore, magari vorrebbero fare altro, magari vorrebbero stare con i propri cari. E
poi: a che serve lavorare? Per cosa offriamo tempo e fatica? Lavoriamo per
produrre oggetti. Beni. Servizi[2]. Per far “girare l’economia”, quindi per
produrre denaro, profitto. Banalmente potremmo sintetizzare dicendo che ognuno
di noi lavora per creare le cose che utilizziamo, e così facendo facciamo fare
soldi a chi possiede le società per cui tutti lavoriamo. Altro dubbio: perché io
devo lavorare tutta la giornata in fabbrica o in ufficio o in strada, quando poi
magari c’è qualcuno che senza far nulla raccoglie i frutti della mia fatica? Gli
operai di un’industria sgobbano, per un migliaio d’euro al mese, mentre il
proprietario se ne sta a far la bella vita, diventando ogni giorno decisamente
più ricco dei suoi sottoposti. È giusto? No di certo. E sono questioni che hanno
posto tanti uomini, prima di noi. Per cui sono morti, lottando, tanti uomini
prima di noi, chiedendo un trattamento veramente equo, una redistribuzione dei
profitti, che non faccia arricchire enormemente uno solo. Ma di queste lotte, di
questi uomini, ci siamo dimenticati.
Il
lavoro é l’economia
Abbiamo
accettato che il mondo va così. C’è una classe di persone ricche che possiede
soldi e potere, e lavora ben poco, e una massa di persone che invece spende la
propria vita in una faticosa routine. Se sei fortunato e sfacciato, come i
protagonisti dei reality, potrai diventare famoso ed arricchirti e
consumare tantissimo anche tu. È questo che ci insegnano i media, è questo che
sta lì a sbatterci in faccia lo star system, che produce idoli con cui si
identifica il lavoratore alienato e sottomesso. Se riesci a entrare nel mondo
dello spettacolo, che sia la tv,
il calcio o il cinema, potrai anche tu uscire dalla melma, e far tanti soldi. Ed
infatti chi di noi non insegue il sogno di vincere al Superenalotto o a
Win for life? Liberarsi dal problema del lavoro, dei soldi,
e passar la vita a non far niente. La vita del nababbo, la sogniamo tutti. Ma la
dura realtà è un’altra ed è dura. Se non ereditiamo proprietà che ci danno una
rendita, siamo costretti a sbarcare il lunario in qualche modo. E per questo
siamo una massa di scontenti che sogna di vincere una barca di soldi per non
lavorare più. Ma che non si chiede per chi e perché lavoriamo. Se è giusto che
il sistema funzioni così. Siamo schiacciati dalla paura, siamo rabbiosi nella
quotidiana lotta dell’uno contro l’altro per le briciole, tanto da non renderci
conto di quanto sia storto tutto il carrozzone, attuando la commercializzazione
di ogni relazione sociale.
Ritengo quindi inutile criticare il
capitalismo e l’economia senza criticare il lavoro, che in fin dei conti
è l’economia.
«Chi non
lavora...»
Il sistema
economico si basa infatti su principi fondamentali aberranti: lavorare,
crescere, produrre, e basta. Per sempre e a qualunque costo, per aumentare
l’unica cosa che conta: i profitti. Attraverso una gigantesca impresa di
repressione del vivente. Appoggiata da tutte le forze politiche, senza
distinzione di colore: anche le sinistre, infatti, hanno sempre venerato con
dedizione il lavoro, elevandolo a essenza dell’uomo, e facendone, in maniera
mistificante, il presunto principio opposto a quello del
capitale.
Ed infatti
il lavoro è diventato parte fondante della nostra identità: la domanda «che
lavoro fai?» viene subito dopo l’abituale «come ti chiami». Eppure è qualcosa
che dovremmo aver voglia di fare, mentre la maggior parte di noi questa voglia
non ce l’ha. In fin dei conti significa fare sempre la stessa cosa tutti i
giorni, e solo perché abbiamo assoluto bisogno di reddito.
E se un
lavoro non ce l’hai, oscilli ancor peggio tra il disagio, l’insicurezza, la
depressione, la rabbia (che può diventare violenza), la paura, etichettato
negativamente come disoccupato, sei disposto ad accettare qualsiasi vergognoso
ricatto e non hai neanche vero tempo libero, perché l’inoccupato
nelle ore
in cui dovrebbe sviluppare i rapporti sociali sperimenta il vuoto. La sua vita è
una privazione permanente. L’annullamento sociale è così forte che non gli dà la
possibilità di fare altro. Questo esempio ci rivela la funzione delle etichette:
allontanare le popolazioni, smaterializzare situazioni
concrete[3].
E quando il vuoto interiore si fa troppo
grande, può esser più semplice provare a riempirlo con antidepressivi, droghe e
alcol, perché forte è il legame tra lavoro e dipendenze (lo stesso lavoro per
alcuni è una dipendenza, il cosiddetto workaholism), oltre all’elevato numero
di suicidi, segno di quest’epoca. Ed inoltre la disoccupazione permanente
permette alle società di mantenere bassi gli stipendi, poiché in tal modo ci
sarà sempre qualcuno disperato e disposto ad accettare basse cifre e condizioni
assurde, pur di avere un’entrata. Piccoli agi e comodità sono il miglior
sonnifero, ci accontentiamo di qualche apparente e banale
riforma.
Il tempo
è denaro?
Ci son
voluti secoli di violenza su larga scala per sottomettere gli uomini, facendo
interiorizzare così profondamente quest’idolo: «la sfacciata richiesta di
sprecare la maggior parte della propria energia vitale, per un fine deciso da
altri»[4]. Il lavoro condiziona il modo di pensare
ed agire fin nelle minime circostanze della vita quotidiana e nei più intimi
recessi della psiche: inoltre se sei occupato a sopravvivere, è ancora più
difficile che tu abbia forze, tempo e modo di capire cosa stia accadendo nel
mondo...
Dall’epoca
della Riforma, tutte le forze propulsive della modernizzazione occidentale hanno
predicato la sacralità del lavoro. Alla fine del ventesimo secolo, tutti i
contrasti ideologici sono praticamente svaniti nell’aria. In vita è rimasto lo
spietato dogma comune che il lavoro è la caratteristica naturale
dell’uomo[5].
Ma è con
gli Stati moderni, che hanno monetizzato la tassazione e l’hanno aumentata in
maniera esorbitante, per mantenere la burocrazia e gli eserciti, che è iniziato
il meccanismo del “dover guadagnare soldi”, affermandosi così il fine della
valorizzazione del capitale, ovvero la trasformazione degli esseri umani nella
materia prima di una macchina che trasforma il lavoro in denaro, distruggendo il
tradizionale modus vivendi.
Fu proprio il moderno sistema produttore di
merci, con il suo fine in sé dell’incessante trasformazione dell’energia umana
in denaro, che fece nascere una particolare sfera, “separata” da qualsiasi altra
relazione, astratta da ogni contenuto, quella del cosiddetto lavoro – una sfera
di attività eterodiretta, incondizionata, irrelata, meccanica, separata dal
resto del tessuto sociale, una sfera che obbedisce a un’astratta razionalità
finalistica “aziendale” al di là dei bisogni. In questa sfera separata dalla
vita, il tempo cessa di essere tempo vissuto, profondamente sentito; diventa una
semplice materia prima, che deve essere utilizzata nel modo migliore: “il tempo
è denaro”[6].
O il
tempo è nostro?
Così
facendo si è andati contro la vita: già nel Medioevo, la stessa Chiesa
cattolica, attraverso le elaborazioni della Scolastica condusse una lunga e per
molto tempo vittoriosa battaglia non solo contro l’usura e contro l’interesse.
Secondo Giovanni Duns Scoto: «Il tempo è di Dio e quindi di tutti e non può
perciò essere monetizzato e fatto oggetto di mercato». E se il tempo è di tutti,
nessuno può essere padrone del nostro tempo.
In epoca
preindustriale il contadino (e l’artigiano) vive sul suo e del suo, è padrone
del proprio tempo, della propria vita. Scrive lo storico Carlo Maria
Cipolla:
“L’artigiano della bottega preindustriale
lavorava più ore dell’operaio industriale, ma non doveva necessariamente
soggiacere alla dura disciplina degli orari e dei tempi della fabbrica e per
diversi settori manifatturieri aveva il piacere e l’orgoglio di far uscire dalle
proprie mani un prodotto finito”[7].
Noi
moderni, si sia operai, impiegati, operatori del terziario, vendiamo invece ad
altri più che le nostre energie, come dice un po’ rozzamente Marx, il nostro
tempo, la nostra vita. A parte alcuni privilegiati siamo tutti degli “schiavi
salariati” come scrive Nietzsche. Ci siamo messi in condizioni tali che in molte
situazioni siamo costretti a scegliere fra il lavoro, cioè la vendita ad altri
del nostro tempo senza la quale non possiamo però sostenerci, e la salute (Ilva
docet).
Anche da
questo punto di vista, quello dell’inquinamento, della salvaguardia
dell’ambiente e, in definitiva, della nostra vita, gli uomini e le donne del
Medioevo si sono dimostrati più sapienti di noi[8].
Eppure
una volta non era così
A partire
dai lavori sul campo che studiano gli aborigeni australiani della terra di
Arnhem e i Boscimani del Kalahari, Marshall Sahlins, nel suo L’economia
dell’età della pietra, procede a una rigorosa quantificazione dei tempi di
lavoro nelle società primitive. Ne emerge che, lontano dal trascorrere le loro
giornate in una febbrile attività di raccolta e caccia, questi supposti selvaggi
dedicano mediamente alla produzione di cibo non più di cinque ore al giorno, e
spesso non più di tre-quattro ore. Una produzione oltretutto interrotta da
frequenti riposi e che non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo, tanto che
l’apporto dei bambini e dei giovani a questa attività economica è quasi nullo.
[…] È un vero e proprio mito quello del selvaggio condannato a un’esistenza
quasi animale. Dall’analisi di Sahlins, l’economia dei primitivi non solo non
risulta come un’economia della miseria, ma al contrario le società primitive
sono le prime vere società dell’abbondanza. È la nostra società contemporanea
quella delle carestie e delle povertà diffuse su larga scala. […] “Oggigiorno,
nell’era delle massime conquiste tecniche, la carestia è un’istituzione”. […]
Secondo Pierre Clastres, la società primitiva è una struttura che funziona
sempre al di sotto delle proprie possibilità e che potrebbe, se lo volesse,
produrre rapidamente un surplus. […] Superata la produzione necessaria, si tende
all’arresto del lavoro-produzione[9].
Parole come
lavoro e tempo libero non avrebbero senso: lavoro, in greco e latino
(ponos e labor), si traduce come sforzo, pena, fatica. Ma anche in
parecchie lingue moderne la parola “lavoro” è rimasta non come sinonimo per
un’attività umana autodeterminata, ma rinvia sempre ad un destino sociale
infelice. E il lavoro va combattuto partendo proprio sulle parole:
Appropriandosi della parola “lavoro”, e di
altre parole a essa collegate come “utile”, “serio” e “benessere”, il modello
dell’economia di mercato chiude le alternative nell’angolo, costringendole a
usare parole come “ozio”, “inutile” e “spreco”, ed è innegabile che oggi
(lasciando perdere l’otium dei romani, di cui ben pochi ricordano) queste
parole implichino giudizi di valore negativi[10].
Il
lavoro non c’è più
Ed ormai,
il lavoro praticamente non c’è più, e non tornerà. In Italia, negli ultimi mesi,
si parla di disoccupazione giovanile al 40%, non a caso.
L’idolo
“lavoro” è clinicamente morto, ma viene tenuto in vita artificialmente grazie
all’espansione, apparentemente autonoma, dei mercati finanziari. Molte aziende
industriali fanno profitti che non derivano più dalla produzione e dalla vendita
di beni reali, che sono da tempo diventate attività in perdita, ma dalla
partecipazione di una “scaltra” divisione finanziaria alla speculazione sui
titoli e sulle valute[11].
Dopo secoli
di lotta contro la fame e la povertà, quando l’unica cosa che importava era
riempire lo stomaco, è arrivato il Novecento, con le sue guerre mondiali, con la
crisi del ‘29 e la conseguente creazione del sistema dei consumi, e ci è stata
regalata la grande promessa:
Andrete via
dalle campagne dove per secoli siete vissuti al freddo e all’umido, poi andrete
perfino via dall’industria, dove si fatica e si muore anzitempo; andrete tutti a
scuola e all’università, avrete tutti la cravatta, lavorerete in città, avrete
un posto fisso, la macchina, una casa riscaldata a 24 gradi, farete
shopping nei centri commerciali, avrete le vacanze
pagate[12].
E la nostra
risposta è stata un’adesione inconsapevole ma totale a questa promessa:
Domandi la
mia adesione senza critica? Pretendi obbedienza agli orari del lavoro, alla
produzione, alla crescita spasmodica e indiscutibile? Vuoi che aderisca al
modello unico del consumismo e dello spreco? E sia! Ma devi darmi in cambio
sicurezza, voglio essere spensierato e carico di speranze. Se devo diventare uno
schiavo e sacrificare tutto il mio tempo, tutte le mie specificità, gran parte
delle mie aspirazioni, non voglio preoccuparmi di nulla, altrimenti faccio delle
domande, metto sabbia nell’ingranaggio, non partecipo più al
gioco[13].
Il
ricatto della pensione
Ed invece,
dopo i decenni postguerra più o meno dorati, con la tecnologia che ha reso le
nostre vite sempre più comode e vuote, eccoci sempre più schiavi: è finita
l’epoca del posto fisso, che dava il benessere, che ci faceva essere sicuri e
vincenti, e siamo tra pseudolavori a contratto, ferie non pagate, zero malattie,
tredicesime, tfr e diritti,
lottando l’uno contro l’altro per accaparrarci pochi euro. E non potremo mai
lavorare tutti. Aumentano tasse e accise, l’evasione fiscale all’improvviso è
diventata un problema vero: prima la si sosteneva quasi, la si giustificava e
tollerava, era un ammortizzatore sociale, ma adesso le regole sono cambiate, il
sommerso deve tornare davvero a galla, quei soldi se rvono alla finanza
pubblica. Come fa altrimenti il sistema a continuare a sprecare e ad esser
inefficiente, a gonfiare e a sovvenzionare?
La
costrizione a lavorare, poi, si basa(va) su un altro ricatto, oltre a quello di
reperire il pane nell’immediato: il ricatto della pensione. Una volta diventato
vecchio, non servirai più a nulla, non sarai un punto di riferimento per la
comunità, anzi. Ma un altro segno di questi tempi, è che le pensioni non le
vedremo più: secondo lo studio Demographic Risk di The Boston
Consulting Group[14], la generazione dei baby boomers,
ovvero i nati dopo il boom economico, tra gli anni ‘50 e ‘60, sta per andare in
massa in pensione, e farà saltare il banco. Chiedendo al sistema di mantenere
l’ultima parte della promessa, lo farà fallire. E non è un caso se già da
diversi anni si alza sempre più l’età pensionabile. Ormai è diventata
ingestibile quella che prima era la gestione ordinaria.
Il problema è che oggi questo capitalismo,
che a livello globale era già fondato sullo sfruttamento di molti per il
benessere di pochi, non può più neppure garantire il benessere a quei pochi né
offrire certezze e speranze, e chiede anzi sacrifici senza contropartita.
Sacrifici, si badi bene, non per mantenere la condizione a cui eravamo abituati
o lievemente inferiore, bensì per fare due o tre lunghi passi
indietro[15].
Bisogni
veri, bisogni falsi
Prima
eravamo pronti a tradire le nostre vocazioni, pur di avere un posto fisso, o
eravamo pronti a iscriverci a corsi universitari che neanche ci piacevano, ma
che ci davano un “futuro garantito”. Ora neanche più la laurea permette alcuna
corsia preferenziale.
Ma per cosa
lavoriamo e guadagniamo? Di cosa abbiamo bisogno, davvero? Distinzione chiave è
quella tra bisogni veri e bisogni falsi, che faceva il grande Herbert
Marcuse[16]. I bisogni falsi vengono sovrimposti
all’individuo da parte di intere ssi sociali particolari cui preme la sua
repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria
e l’ingiustizia. L’individuo può trovare estremo piacere nel soddisfarli, ma non
possono essere conservati e protetti se servono ad arrestare lo sviluppo della
capacità (sua e di altri) di riconoscere la malattia dell’insieme e afferrare le
possibilità che si offrono per curarla. Il risultato è pertanto un’euforia nel
mezzo dell’infelicità. La maggior parte dei bisogni che prevalgono, bisogno di
rilassarsi, divertirsi, comportarsi e consumare in accordo con gli annunci
pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a
questa categoria di falsi bisogni, determinati da potenze
esterne.
I soli
bisogni che hanno un diritto illimitato ad essere soddisfatti sono quelli
vitali: il cibo, l’acqua, il vestire, un’abitazione adeguata. L’obiettivo
dell’umanità dovrebbe essere la soddisfazione universale dei bisogni vitali e
una progressiva riduzione di fatica e povertà.
Interessante provocazione viene dal
manifesto dell’Unabomber americano:
Per
recuperare l’autenticità dei bisogni umani, l’Unabomber riteneva necessario
distruggere la tecnologia che ha reso superflua la nostra operosità e ci ha
condannato a un’esistenza basata sull’inganno. Solo quando saremo nuovamente
costretti ad affrontare le fiere mani nude e a raccogliere giorno dopo giorno le
provviste necessarie per sopravvivere ritorneremo a scoprire i nostri bisogni
reali e a soddisfarli con attività di immediato, innegabile
valore[17].
Tempo
libero vs lavoro
Fintanto
che gli individui sono ritenuti incapaci di essere autonomi, fintanto che sono
indottrinati e manipolati non possono rendersi conto della distinzione tra
bisogni veri e falsi, continuando a consumare (e distruggere)
compulsivamente.
Il lavoro è
quindi contrapposto al tempo libero, che come ci suggerisce l’aggettivo
“libero”, dovrebbe esser il tempo migliore, quello in cui ci si può dedicare a
se stessi e agli altri, alla propria crescita e realizzazione, a diventare
persone migliori. Quindi la vita dovrebbe essere tempo libero, per la maggior
parte, dovrebbe esser il centro, il tempo che è veramente nostro e ci
identifica, e in cui apprendiamo nuove conoscenze e abilità. E i bisogni veri,
una distrazione. Necessaria, ma pur sempre una distrazione.
Il lavoro non va in alcun modo identificato
con il fatto che gli uomini modificano la natura e hanno relazioni l’uno con
l’altro. Fino a quando gli uomini esisteranno, essi produrranno vestiti,
nutrimento e molte altre cose, alleveranno i loro figli, scriveranno libri,
discuteranno, si dedicheranno al giardinaggio, faranno musica e altro ancora.
Ciò è banale e va da se. Non è invece scontato che la semplice attività umana,
il puro “dispendio di forza-lavoro”, di cui non si tiene in alcuna
considerazione il contenuto, e che è totalmente indipendente dai bisogni e
dalla volontà degli interessati, venga elevata a un principio astratto che
domina le relazioni sociali[18].
Oggetti
ed esseri umani inutili
Ormai il
lavoro ha perso ogni senso trascendente, anzi è simbolo e metafora del dominio
in atto sugli esseri umani e sulla natura. Siamo in un mondo soggetto a dominio
unificato, che ha come unica prospettiva il consumo, per una parte delle persone
ricche, o la sopravvivenza, per le enormi masse. La modalità del potere è basata
sull’organizzazione della scarsità, ovvero sulla povertà di
alcuni.
E il
modello è basato sullo spreco, sulla creazione di bisogni (spesso superflui) per
consumare oggetti inutili, e magari chi ha bisogno non ha risorse per consumare
e chi ha risorse non ha bisogno di ciò che viene prodotto. Basti pensare che
somme sempre più ingenti vengono destinate dalle industrie a pubblicità e
marketing, utilizzando per avidi fini le migliori tecniche di comunicazione, per
convincere le masse che hanno bisogno di questo o quell’oggetto. E la
televisione ha ancora un ruolo chiave per la creazione e il mantenimento dei
bisogni, drogandoci per molte ore al giorno, fin da bambini, quando di certo non
abbiamo alcuno strumento per discernere.
E la
produzione è sempre più automatizzata, rendendo inutile un numero sempre
crescente di esseri umani: chi in questa società non riesce a vendere la sua
forza-lavoro è “superfluo” e finisce nelle discariche sociali, per strada,
nelle mense, o viene utilizzato dalle mafie (grandi produttrici di profitto a
nero, sono un meccanismo indispensabile alla macchina del capitale), o finisce
arrestato dalla polizia.
Finché il
modo d’essere umano sarà identificato con una forma di possesso e controllo di
oggetti, e gli scambi che hanno valore per gli esseri umani saranno limitati a
scambi di oggetti, fondati sul bisogno che gli esseri umani ne hanno, sarà
inevitabile scontrarsi con la finitezza delle umane risorse e degli umani
bisogni; dunque inevitabilmente un certo numero di esseri umani si troveranno
privi di valore, ridotti a non-persone superflue, da eliminare nel modo più
indolore possibile[19].
Inoltre, per mantenerci sempre attivi come
consumatori desideranti, tutte le nostre chincaglierie tecnologiche vengono
lanciate sul mercato come se avessero una data di scadenza di uno/due anni,
secondo il concetto dell’obsolescenza
programmata: gli oggetti diventano vecchi, non di più di moda, e a volte non
più funzionanti, poco tempo dopo la loro comparsa.
Il
lavoro serve sempre
Come molti
oggetti, molti lavori sono assolutamente inutili, se ripensiamo ai veri bisogni
dell’umanità.
Nella sfera
del lavoro non conta che cosa si fa, ma che si faccia qualcosa, dal momento che
il lavoro è un fine in sé, proprio perché realizza la valorizzazione del
capitale – l’infinita moltiplicazione del denaro grazie al denaro stesso. […] E
proprio per questo il contenuto della produzione è indifferente tanto quanto
l’uso delle cose prodotte, e le loro conseguenze sociali e naturali. Che si
costruiscano case o si producano mine antiuomo, che si stampino libri o si
coltivino pomodori transgenici, che in conseguenza di ciò uomini si ammalino o
l’aria sia inquinata o che “soltanto” il buon gusto vada a farsi friggere -
tutto questo non importa niente, purché, in un modo o nell’altro, la merce si
trasformi in denaro e il d enaro in nuovo lavoro. […] Che cosa si produce, a
quale scopo e con quali conseguenze, è in fin dei conti altrettanto
indifferente per il venditore del bene forza-lavoro quanto per il suo
acquirente. I lavoratori delle centrali nucleari e degli impianti chimici
protestano più di tutti gli altri quando si vogliono disinnescare le loro bombe
a orologeria. Gli “occupati” di Volkswagen, Ford o Fiat
sono i più fanatici sostenitori del programma di suicidio automobilistico. Ciò
non accade semplicemente perché essi si devono obbligatoriamente vendere per
“avere il diritto” di vivere, ma perché si identificano effettivamente con la
loro limitata esistenza. Sociologi, sindacalisti, parroci e altri teologi di
mestiere della “questione sociale” vedono in tutto ciò una prova del valore
etico del lavoro. Il lavoro forma la personalità, dicono. A ragione. Il fatto è
che forma la personalità di zombie della produzione di merci, che non riescono
più a immaginarsi una vita al di fuori del loro amatissimo sgobbo, al quale loro
stessi, giorno dopo giorno, sacrificano tutto[20].
Anche il cosiddetto lavoro creativo è
comunque lavoro, quindi una forma di schiavitù e alienazione, riservato a gruppi
particolari o accaparrato da specifiche caste, ed ha un rapporto di dominio con
il lavoro strettamente materiale. La trasformazione del lavoro intellettuale in
attività virtuale segna una nuova tappa della decomposizione della società: il
lavoro viene superato da una nuova forma di parassitismo, la circolazione di
capitali. La produzione di ricchezza stessa diventa virtuale, in seguito alla
rivoluzione microelettronica, sempre più separata dall’utilizzo di forza-lavoro
umana. Chissà se riuscirà il capitale a far credere ancora a lungo che produrre
è indispensabile, nonostante non si facciano più grandi profitti con la
produzione, rispetto alla produzio ne virtuale e immateriale di denaro da parte
della finanza.
La folle
bugia della crescita infinita
L’altra
illusione a cui si lega l’idolo del lavoro è senz’altro la crescita infinita.
Pare che esista sempre un modo di vita migliore, e per questo continuiamo a
credere nel pil, e a rubare
materie prime e risorse ai paesi più poveri: uno dei più grandi crimini che
continua ad esser perpetrato, oltre alla schiavitù, è lo sfruttamento coloniale:
dagli Stati si è passati alle multinazionali, ma la sostanza è la stessa. Sono i
paesi del Sud che pagano lo sviluppo di quelli del Nord. È il capitalismo che
crea i poveri, dato che non è un sistema in cui tutti vincono. Come diceva
Orwell: «Si sono conquistati gli operai al socialismo dicendo loro che erano
sfruttati, mentre in realtà, su scala mondiale, erano
sfruttatori»[21].
La nota
propensione a dislocare le produzioni laddove il costo del lavoro è più
conveniente o anche solo dove il costo di produzione (fornitura di materie
prime, energia, legislazione compiacente, bassa o nulla tassazione, logistica) è
foriero di profitto congruo e stabile[22].
Tutto il
modello è basato su uno squilibrio di fondo, cioè un 20% della popolazione
mondiale si pappa l’80% delle risorse: e ciò provoca che gli strapopolati paesi
in via di sviluppo aspirino a consumare come noi.
Nei
prossimi anni la classe media del pianeta crescerà di oltre un miliardo di
unità. Ciò significa che due miliardi di persone vivranno come noi adesso, con i
nostri stessi, assurdi e insostenibili consumi. Dunque il doppio della
produzione, dei trasporti, dell’inquinamento, dei rifiuti da
smaltire[23].
Tutto
questo devasta le capacità di autorigenerazione ambientale del pianeta, che è un
pianeta finito e non ha risorse illimitate: questa forte pressione sulle risorse
naturali provoca innalzamenti del costo degli alimenti, delle materie e delle
energie per lo sbilancio tra domanda e offerta, diminuendo sempre di più le
scorte, provocando tensioni e ribellioni. Scenari di tensione potrebbero già
verificarsi a breve, dopo la crisi di siccità che c’è stata nel Midwest
americano, e dopo le continuate speculazioni sui cereali da parte delle banche
d’affari, che stanno facendo lievitare i prezzi delle materie prime
alimentari[24].
Ed inoltre
il diktat della crescita mette in crisi la già vacillante industria
petrolifera (non si scoprono più tanti giacimenti quanto petrolio si consuma,
ogni 5 pozzi che si esauriscono se ne scoprono solo 2 nuovi, e i prezzi
aumentano vertiginosamente, come è evidente; ed aumenteranno sempre, anche per
limitarne i consumi). Si pensava forse che le risorse fossero infinite, che i
paesi sottosviluppati restassero tali, che la speculazione finanziaria non
prendesse il sopravvento sull’economia reale?
La stessa
alimentazione, uno dei bisogni più importanti che abbiamo, dipende dai
combustibili fossili, dato che il petrolio oltre a essere la base della
distribuzione, serve anche a produrre fertilizzanti e diserbanti. Il cibo che
consumiamo, prodotto in maniera industriale, non sa di nulla, e con l’uso
selvaggio della chimica i terreni si stanno desertificando. Non è un caso se uno
dei fenomeni del momento è il land grabbing, ovvero la corsa
all’accaparramento di terreni fertili da parte delle
multinazionali.
L’inquinamento e la distruzione
dell’ambiente sono ovviamente il risultato dell’industrializzazione, e non
trovano corrispondenza nella società preindustriali. Più si studiano tali
società, più ci si rende conto che esse riuscirono a trovare un miracoloso
equilibrio con la natura, bilanciando il consumo presente e la conservazione per
il futuro con un tale successo che le moderne strutture economiche non sono
riuscite nemmeno a immaginare.
La fine
del mondo storto?
Siamo
davanti a diverse opzioni per quanto riguarda il futuro. Le alternative più
negative sono una dittatura “ecologica” o una catastrofe ecologica:
L’incapacità delle “leggi del libero
mercato”[25] di impedire l’innalzamento del livello
degli oceani, il degrado dei terreni agricoli, l’esodo dei contadini verso le
metropoli lascia infatti come unica alternativa a questo sistema, soprattutto
nel contesto di questo sistema, una dittatura che imporrà (e impone già di
fatto) misure di salvataggio essenziali per sopravvivere[26].
L’immagine
evocata da questi spettri è quella di un’umanità sopravvissuta a se stessa, che
non sa più per che cosa e su che cosa impegnarsi e sta quindi procedendo
irresistibilmente alla propria sistematica distruzione
Se è sufficiente uno sciopero dei tir a mettere in ginocchio un paese, e a svuotare i supermarket, quando il petrolio aumenterà ancora o scarseggerà, cosa accadrà? Dobbiamo considerare anche lo scenario peggiore, come raccontato da Mauro Corona, nel suo romanzo La fine del mondo storto, in cui finiscono le risorse energetiche fossili, e la gente inizia a morire di freddo e fame, dopo aver bruciato e mangiato qualsiasi cosa. Le città muoiono, incapaci di soddisfare i bisogni principali e l’eventuale rinascita viene dalle campagne e dalle montagne, dove ci sono quei pochi che hanno conservato un rapporto sano con la terra e i lavori manuali...[28].
«Per ragioni di pura redditività, materiali da costruzione e alimenti fanno tre volte il giro del mondo, sebbene la maggior parte delle cose possa essere prodotta facilmente sul posto senza troppi trasporti»[29].
Invece di sfruttare le macchine per liberarci il tempo dal lavoro, la tecnologia è servita al sistema per tenerci ancora più sotto torchio, sempre reperibili e produttivi, anche quando non siamo propriamente “al lavoro”. È aumentata l’efficienza, a discapito del riposo e della vita sociale, velocizzando la rottura del giocattolo, e logorando ancor di più i già vacillanti legami comunitari.
Sindacati contro il lavoro!
Più che continuare a elemosinare stipendi leggermente più alti e qualche licenziamento in meno, la vera lotta dei sindacati dovrebbe esser contro il lavoro. Data l’attuale fase recessiva, è assurdo pensare di investire in forza lavoro in un sistema produttivo saturo, che va ancora avanti solo perché basato sugli sprechi. Il sistema tenderà ad assorbire il minor numero di lavoratori altamente produttivi, e non di più. «L’Italia è una Repubblica basata sul lavoro», afferma perentoriamente la nostra Costituzione. Ma non c’è un diritto che viene prima di tutti, cioè vivere? I sindacati devono alzare l’asticella, il traguardo non può più essere il posto fisso. Perché non smettono di volerci schiavi tutta la vita? Perché combattono per pensioni che non avremo? Perché negoziamo le modalità di questa schiavitù coi padroni, senza neanche riuscirvi, invece di metterle in discussione?
Abbiamo anche noi le nostre responsabilità: a che serve lavorare e basta? Per guadagnare soldi che ci servono per sprecare, in un modello che non produce benessere, perdendo di vista la nostra vita, il tempo, le relazioni, ma anche la società e l’ambiente? Abbiamo aderito a questo sistema degradante e alienante, a quei simulacri, quindi ne facciamo parte, tutti noi. Abbiamo ingenuamente considerato vantaggiose le sue ammalianti offerte.
Ci siamo pigramente abituati a tutto questo, a lavorare tutto il giorno, tutti i giorni. Inizia a sorgere il dubbio che davvero non si voglia cambiare il modo in cui vive, almeno inconsciamente. Non saprebbemmo neanche cosa fare se avessimo buona parte della giornata a disposizione! C’è chi, andando (ancora) in pensione, non sa come passare il tempo.
Scollochiamoci
È difficile comprendere ciò che sta avvenendo nel mondo, attorno a noi. Ed è ancor più faticoso e terribile individuare una via d’uscita, un’alternativa. Potrebbe arrivare un momento in cui però saremo costretti a cambiare, violentemente, dato che la crisi attuale è una crisi relativa, non ancora assoluta. E ripenseremo ad oggi con rimpianto. Quando potevamo cambiare, e non abbiamo avuto il coraggio di farlo.
Come afferma Simone Perotti nel video di presentazione del libro Ufficio di scollocamento, la maggior parte delle persone continuano e continueranno per molto tempo a bussare all’uscio della grande festa, non vogliono capire che il party è ormai agli sgoccioli, e se anche circola ancora qualche vassoio con le tartine, il buffet è stato consumato, la cucina è chiusa, i camerieri stanno andando via. Ha senso implorare un amico per entrare ad una festa dove il cibo è finito? Anche perché i più lesti, quelli che ragionano con la propria testa, stanno andando via.
Pensiamo di poter tutti continuare a lavorare, a fare shopping, a vivere in città. Ma ciò non può più avvenire: il sistema non drena più tutte queste risorse. Prima che ci scollochi lui forzatamente, come sta avvenendo, scollochiamoci noi.
La transizione
Va quindi messa a soqquadro la protesta, non possiamo più chiedere il lavoro, dobbiamo chiedere ancora di più, dobbiamo essere contro, il lavoro. E reinventare del tutto la nostra visione del mondo. Stiamo perdendo la gioia di sperimentare, di imparare, di fare attività diverse, e magari farle per noi stessi e per la nostra comunità.
È necessaria un’emancipazione totale, complessiva, psicologica ed esistenziale da questo Sistema, «analizzare e rivedere in modo olistico la propria vita fatta solo di denaro e lavoro, cogliendo prima il senso, poi le metodiche e infine le possibili soluzioni di una rifondazione esistenziale complessiva»[30]. E dobbiamo superare il senso di inettitudine e la paura, chi ha una visione deve proporla, ma prima di tutto deve viverla. Proviamo ad effettuare una transizione. Prima di essere costretti a farlo.
Smettere per ricominciare è difficile. Siamo del tutto disabituati a considerarci come macchine complesse. Da troppo tempo il mondo ci tratta come esseri semplici, monodirezionali, utili solo a qualcosa. E noi ci siamo convinti che è così. Fin da giovani passiamo alla frontiera dello “stare al mondo” occultando un mucchio di utili facoltà, […] intelligenza, emotività, fragilità, bisogni interiori, comunicazione interpersonale, riposo, riproduzione sociale, cultura, multidisciplinarietà, identità, passione, essenzialità, sobrietà, sogno, creatività, inattività, silenzio, solitudine, per citare solo alcuni degli ingredienti essenziali per una vita equilibrata[31].
«Occorre prender atto della situazione del mondo in cui viviamo e smettere di correre in fila indiana verso il baratro, magari scegliendo un altro punto di vista con cui vivere»[32]. Cercando di rendere il denaro sempre meno importante, ripuntando sui legami comunitari, sulla condivisione e sullo scambio gratuito di aiuto. Come scrive Marcel Mauss, nel Saggio sul dono, un’economia del dono si basa su tre principi: dare, ricevere, restituire. Tre “obblighi” che creano un circolo, una relazione tra sconosciuti, che obbliga nel tempo ad instaurare un indebitamento reciproco, creando così un legame, un senso di solidarietà, dove alla fine ognuno sa di ricevere più di ciò che dà[33].
È necessario
un rivolgimento epocale nel modo di concepire e vivere la nostra personalità, i nostri rapporti reciproci […], un’azione che potrebbe consentirci di pensare al millennio prossimo venturo come a quello del nostro affrancamento, della nostra dignità finalmente acquisita di esseri umani[34].
Dobbiamo tornare ad amare e vivere la terra e noi stessi, e produrre ciò che davvero ci serve localmente, sul territorio, a partire dal cibo[35]. L’economia parte, alla base, da un’eccedenza di energia fornita dal sole. Da lì inizia tutto: il cibo nasce combinando l’azione di sole, acqua e terra. Per tornare all’unità: umanità e natura sono falsamente scissi, da troppo tempo. Per tornare ad esser i veri creatori della nostra vita, per non esser più schiavi e distruttori, ma creatori di luce.
[1] C. Michealstadter, ne La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 1995, presenta la rettorica come il sistema di convincimenti, spesso silenziosi e quasi inavvertiti, con cui l’uomo, fin da bambino, viene indotto all’obbedienza e alla subordinazione ideologica nei confronti del sistema sociale. Nella società industriale uno strumento indispensabile per quest’opera è l’educazione: attraverso la scuola, il bambino viene “addomesticato” e addestrato a obbedire meccanicamente e quasi inconsciamente alle regole dominanti, a diventare scolaro perché resti tale tutta la vita, diventando indifferente a tutto ciò che fa, purché lo faccia secondo le regole, «Da una parte il dovere, dall’altra il piacere». Dovere e piacere invece di coincidere sono posti in conflitto, da qui deriva l’alienazione moderna: lo studio lo si vive come un lavoro necessario per viver contenti, e si impara a vivere nel calcolo, fino ad arrivare al lavoro con lo stesso approccio di sufficienza.
[2] «A partire dagli anni ‘70, si è vieppiù convertito lavoro industriale in lavoro nei servizi. Oggi le principali economie occidentali hanno un ripartizione media di un 2% di Pil in attività agricole, il 28% circa in attività industriali e il 70% circa in attività di servizi». P. L. Fagan, Una Repubblica affondata sul lavoro, 18 maggio 2012,www.megachip.info/tematiche/beni-comuni/8241-una-repubblica-affondata-sul-lavoro.html
[3] M. Benasayag, Contro il niente. Abc dell’impegno, Feltrinelli, Milano 2005.
[4] P. Godard, Contro il lavoro, Elèuthera, Milano 2011, dalla prefazione di Andrea Staid.
[5] Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, Deriveapprodi, Roma 2007.
[6] Gruppo Krisis, cit.
[7] C. M. Cipolla, Storia economica dell’Europa preindustriale, Il Mulino, Bologna 2009.
[8] M. Fini, Torniamo al Medioevo, ilfattoquotidiano.it, 22 settembre 2012.
[9] A. Staid, nella prefazione a Philippe Godard, cit.
[10] E. Bencivenga, Manifesto per un mondo senza lavoro, Feltrinelli, Milano 1999.
[11] Gruppo Krisis, cit.
[12] S. Perotti e P. Ermani, Ufficio di scollocamento, Chiarelettere, Milano 2012.
[13] Perotti ed Ermani, cit.
[14] Perotti ed Ermani, cit.
[15] Perotti ed Ermani, cit.
[16] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999.
[17] T. J. Kaczinsky, La società industriale e il suo futuro. Il Manifesto di Unabomber, Edizioni Stampa Alternativa, Viterbo 1997,www.tmcrew.org/eco/primitivismo/unabomber.html, in Bencivenga, cit.
[18] Gruppo Krisis, cit.
[19] Bencivenga, cit.
[20] Gruppo Krisis, cit.
[21] G. Orwell, Gli scrittori e il Leviatano, in Romanzi e saggi, Mondadori, Milano 2000.
[22] Fagan, cit.
[23] Perotti ed Ermani, cit.
[24] B. Merchant, Manca meno di un anno a rivolte mondiali, lo dicono teorici di sistemi complessi,
www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=10852
[25] Il libero mercato in effetti non esiste: se ci fosse un equilibrio tra domanda e offerta, come ipotizza la teoria economica, questo sarebbe mortale per l’economia. Senza squilibri non si ricavano così tanti profitti: vanno quindi provocati, così come vanno creati nuovi bisogni e desideri artificiali.
[26] Godard, cit.
[27] Bencivenga, cit.
[28] M. Corona, La fine del mondo storto, Mondadori, Milano 2010.
[29] Gruppo Krisis, cit.
[30] Perotti ed Ermani, cit.
[31] Perotti ed Ermani, cit.
[32] Perotti ed Ermani, cit.
[33] M. Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino 2002.
[34] E. Bencivenga, cit.
[35] R. Hopkins, Manuale pratico della transizione. Dalla dipendenza dal petrolio alla forza delle comunità locali, e Cibo locale. Come produrre nella tua comunità alimenti sani e sostenibili. Manuale pratico della transizione, Arianna editrice, Bologna 2012.
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